L’industria dell’auto europea ha almeno due incubi: come risparmiare (prima ancora che come guadagnare) e come raggiungere i limiti di emissione del 2020. Sono le lenti attraverso cui vanno lette le manovre di avvicinamento fra i tedeschi di Daimler e i francesi di Renault, pronti ad arrivare perfino a un timido scambio azionario del 3% (dice il Financial Times) pur di ottenere risultati tangibili. Nell’ordine,  un maggiore integrazione industriale per quel che concerne lo sviluppo di auto piccole e l’uso in comune di grandi motori diesel, più investimenti meno onerosi su nuove propulsioni più pulite. Ma lo scambio azionario appare una strada curiosa, sia perché le azioni francesi valgono circa un terzo di quelle tedesche, sia perché hanno più il valore di un apparentamento che di un nuovo matrimonio. Un po’ come avviene nel calcio: due società di città lontane si alleano per darsi una mano sul mercato, anche se prima o poi capiterà di scontrarsi direttamente.  Ma è raro che così si vinca lo scudetto.

L’intesa, se ci sarà, sa di autoconsolazione e non avrà nulla della grande avventura in cui pure Daimler e Renault sono state maestre con risultati opposti. I tedeschi sono usciti con ossa rotte dalla conquista della Chrysler nel 1998. L’amministratore delegato Dieter Zetsche si è liberato del marchio americano nel 2007, annunciando che da lì in poi avrebbe concentrato tutti i suoi soldi sui marchi Mercedes e Smart. E allora l’intesa con Renault? Dovrebbe servire a mettere un tappo alle perdite per Smart, ma  non è detto. Comunque un segnale che l’autarchia ritrovata non sarebbe sostenibile a lungo. I francesi hanno preso il controllo della Nissan nel 1999, dando vita all’unico matrimonio fra costruttori che finora ha funzionato davvero. Ma l’amministratore delegato di Renault-Nissan Carlos Ghosn è un incompiuto per sua stessa ammissione. Vuole fare quello che nessuno ha finora fatto: un grande ménage à trois. Ha già provato ad allargarsi puntando dritto su un marchio americano. La Gm gli ha detto no  benché malmessa – e adesso Ghosn dovrebbe accordarsi con il governo americano se volesse tornare alla carica, cosa molto più complicata  – mentre la Chrysler è finita alla Fiat.  La Ford sta bene da sola, avendo messo in casa prima della grande crisi i soldi di prestiti e di cessioni (ultima quella della Volvo ai cinesi di Geely per 1,8 miliardi di dollari, roba da Sun Tzu), per cui il fronte americano è chiuso. Adesso c’è Daimler, un bel ripiego dal sapore carolingio. Ma solo proustianamente parlando.

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