Ho visto all’istituto di cultura italiana di New York per la festa del 2 di giugno una proiezione di tre brevi filmati che il giovane Ermanno Olmi ha realizzato nei primi anni ’50 al suo primo impiego alla Edison. Cinema “di fabbrica” di ispirazione gramsciana, ma anche una testimonianza rara dei primi esercizi di stile nouvelle vogue in  anticipo su tutti: Bellocchio e Bertolucci, e sugli stessi francesi. Quello che mi interessa sottolineare è però l’aspetto del cinema di fabbrica, fatto cioè intorno al tema del lavoro, e realizzato con i soldi della stessa azienda. Di quel cinema, al quale hanno contribuito tutti i nostri registi del dopoguerra ad eccezione di Visconti, che era un aristocratico benestante e non aveva bisogno dei soldi, era parte fondamentale una borghesia industriale illuminata, conscia del ruolo che la storia le stava assegnando nella rinascita della società del dopoguerra.

Avanti veloce ai nostri tempi. E’ della scorsa settimana la notizia che il Detroit Institute of Arts (qui tutte le informazioni) potrebbe essere travolto dalla crisi economica che ha messo in ginocchio la città. E’ uno dei pochi musei municipali d’America e le sue sorti sono legate a quelle della città: se questa va in bancarotta, nell’inventario dei suoi assets dovrà elencare anche i Rodin, i Matisse, i Monet che detiene in profusione, e magari venderli, per soddisfare i suoi creditori.

Chiedere che l’industria dell’auto si faccia carico dell’intero debito municipale è impossibile, perché non basterebbe l’intera capitalizzazione della Ford a pareggiare l’indebitamento pubblico. Ma vedere che nessuna delle case che si identificano con la città ha nulla da dire sulle sorti del museo è intollerabile.

L’Institute è stata la prima galleria d’America ad acquistare un Van Gogh, e la prima a farsi avanti quando Diego Rivera fu vilipeso a New York da Nelson Rockfeller. Il magnate lo aveva ingaggiato nel 1931 per decorare il complesso di grattacieli che doveva essere il monumento alla  sua grandezza personale.  Rivera lo ritrasse alla base del murale, al tavolo di gioco di una bisca clandestina, circondato da gangster e prostitute. Rockfeller disdisse il contratto e fece molare l’opera dalla base di cemento. Fu Edsel Ford a cogliere al balzo l’opportunità: chiamò Rivera a Detroit, e gli commissionò i pannelli che oggi decorano le pareti cardinali del museo,  e che meglio di ogni altra opera d’arte testimonia la vitalità e le speranze degli anni che videro l’inizio dell’industrializzazione.

Molti anni sono passati da allora, e il rapporto tra industria e finanza si è oggi corrotto, rarefatto fino a sembrare un orpello della storia passata. Ma permettere che una pagina così importante venga cancellata tra l’incuria generale, e che un’intera città perda di un colpo l’intero patrimonio culturale raccolto in più di un secolo, è un crimine al quale ci auguriamo nessuna delle aziende e degli uomini che possono fare qualcosa per evitarlo vorranno legare il proprio nome.

 

Lascia un commento