Marchionne il giocatore d’azzardo ha tentato una mossa a sorpresa nel braccio di ferro che da due anni lo vede opposto all’agenzia per la sicurezza stradale americana. La NHTSA al termine dell’inchiesta sui serbatoi difettosi che potrebbero favorire incendi in caso di tamponamenti,  aveva chiesto un richiamo da 2,7 milioni di vetture del gruppo Chrysler. Lui ha detto che non  è d’accordo con i risultati, e ha opposto un gran rifiuto, nel nome della qualità delle vetture sotto accusa.

La sua è una risposta anomala come hanno già fatto notare in tanti, e infatti dà la sensazione che più che un confronto amministrativo tra un’azienda e l’agenzia governativa che la controlla, questa trattativa sia un’ennesima partita di poker che il manager antipragmatico non può sopportare di perdere. Le carte gli sono già state favorevoli nei tavoli con i sindacati  e i governi di due continenti. Abbassare la guardia ora sarebbe come tagliarsi la chioma e mettere la cravatta, e il momento è il meno propizio per una svolta così radicale.

C’è il negoziato per il riacquisto della quota azionaria in mano al fondo pensioni del sindacato da concludere; c’è la questione del rifinanziamento del debito di Chrysler e Fiat, e poi il ritorno in borsa da pianificare subito dopo. Un immagine di Marchionne meno che vincente in ognuno di questi teatri potrebbe avere un effetto domino sugli altri, e mandare all’aria la fragile alchimia sulla quale l’intera operazione è stata montata.

Sorprende però vedere che un dirigente come lui che si è fatto le ossa a due passi dal confine con gli Usa, sottovaluti il potenziale  pericolo di uno scontro frontale con la NHTSA. L’agenzia da quasi cinquanta anni suggerisce richiami (17.000 per 500 milioni di vetture) a tappeto con spirito equanime, e le case quasi sempre abbracciano le conclusioni delle sue inchieste. E’ un rito che va ben oltre le quattro ruote.

I politici americani tradiscono le mogli con le prostitute o espongono i genital su Facebook. Le stelle di Hollywood e dello sport picchiano le mogli, molestano le fan o finiscono in tribunale per l’uso di droghe. Cadono in disgrazia. Poi confessano i peccati in pubblico e chiedono la l’assoluzione, secondo un copione di pura matrice pentecostale che non fallisce mai. Ed eccoli, pentiti redenti e pronti a correre per una nuova poltrona di sindaco, per un altra giacca verde al Master di Augusta; di nuovo sulla cresta dell’onda.

Contraddire questo ordine di cose quando si parte da un problema acclarato, come le immagini di Jeep carbonizzate che da quattro giorni ormai riempiono giornali e schermi televisivi è una violazione rischiosa, perché per l’intera durata del contenzioso l’immagine del singolo o dell’azienda rimane ancorata a quel peccato, o a quelle fiamme. Ne sa qualcosa la Ford, il cui Explorer ha impiegato circa dieci anni a riaversi dal tracollo delle vendite dopo una simile contestazione. Ne sapeva qualcosa Richard Nixon che da quel ring non si è mai rialzato fino all’ultimo giorno della sua vita.

A conti fatti, i 300 milioni di dollari stimati per l’esecuzione del richiamo,potrebbero essere un prezzo equo non solo per rendere le auto circolanti più sicure, ma per evitare mesi di gogna mediatica e di umiliazione in pubblico.

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