“I don’t need a flag to be a revolutionary“. “Non ho bisogno di una bandiera per fare la rivoluzione”. Da oggi questo ritornello, infilato nella colonna sonora dello spot di Jeep Renegade cantata dal rapper Victor Chissano, suona come l’inno della riscossa dell’industria dell’auto italiana. E’ l’onda lunga di queste parole ad aver aperto i cancelli, questa mattina, a 300 ragazzi chiamati al loro primo giorno di lavoro nella fabbrica Fiat di Melfi. Com’è noto nei prossimi tre mesi saranno seguiti da altri 700 neoassunti (tutti con contratto interinale che in futuro sarà trasformato in contratto a tutele crescenti) cui si aggiungono circa 350 trasferimenti dalle fabbriche di Cassino e Pomigliano.
Ma perché i 300 assunti di oggi sono figli di una rivoluzione e non solo la banale conseguenza dell’aumento della produzione delle vetture assegnate a Melfi? Perché sono il frutto, questa volta dolce dopo tante amarezze e tanti scontri, del lungo passaggio dalla Fiat in doppiopetto alla FCA in maglioncino. Una storia di morte e resurrezione che si è sviluppata lungo tre grandi linee di frattura.
La prima: addio al provincialismo. Sergio Marchionne ha rotto il modello di business della Fiat italocentrica, “romana” sul piano politico e finanziario (qualcuno ricorda Cuccia e Romiti?) e plurisettoriale su quello industriale (assicurazioni, energia, giornali, supermercati, persino tlc e poi auto). Oggi, ad esempio, FCA mantiene rapporti con la politica (esplicito l’appoggio a Matteo Renzi) ma sostanzialmente non ha debiti verso banche italiane. Questo significa meno “pasticci” nel cortile domestico e la nascita con Chrysler di un’impresa globale – ma non insensibile ad imput nazionali in Usa, Italia e Brasile – con una missione molto chiara, quasi calvinista: fare i soldi con l’auto.
La seconda frattura è lo sradicamento di un modello d’azienda militarista, gerarchico, ridondante (sia al Lingotto che ad Auburn Hills la ristrutturazione è iniziata dal licenziamento di centinaia di dirigenti) composto da feudi affidati a manager l’un contro l’altro armati (se ve lo siete perso leggetevi Giorgio Garuzzo “Fiat, i segreti di un’epoca”, Fazi editore). Oggi FCA è un’azienda orizzontale e semplice (forse persino troppo), a bassa gerarchia, dove fra l’operaio e l’amministratore delegato ci sono solo 5/6 “capi” e dove la ventina dei principali manager hanno due o tre missioni che si intrecciano fra loro e che li spingono a collaborare fra loro.
La terza rivoluzione è industriale in senso stretto e riguarda soprattutto le fabbriche. Facendo leva sui 2.500 concessionari Chrysler e su una disponibilità finanziaria impensabile per Fiat (l’auto del Lingotto fatturava 35 miliardi contro i 90 di FCA) ora Fiat – Chrysler dispone della massa critica per eliminare una stortura storica della nostra industria: la produzione di auto concentrata nel segmento più povero e a minor valore aggiunto. Anche nelle fabbriche c’è meno gerarchia. Lì le figure chiave sono il direttore e i team leader (operai che guidano – senza lavorare con le mani – squadre di sei colleghi). E tutto questo, inevitabilmente, spinge la leva della qualità del lavoro.
Il destino ha voluto che Melfi sia un simbolo sia di Fiat che di FCA. Nel 1993, quando Romiti e Cantarella costruirono dal prato verde questa fabbrica, Fiat copiò il modello dei transplant con i quali i giapponesi allora invadevano l’Europa: fabbriche cacciavite, con basso costo di una manodopera giovane e disposta a grossi sacrifici (se volete leggetevi “Un’inchiesta operaia, lavorare a Melfi”, di Vittorio Rieser, Calice Editori), per invadere il mercato con utilitarie poco costose come la Punto destinate al solo mercato europeo. Oggi FCA affida a Melfi una missione opposta: assemblare auto ad alto valore aggiunto (Renegade e 500X costano il doppio di una Punto, sono 4×4 e hanno il cambio a 9 marce) e destinate anche e forse soprattutto al ricco mercato americano. Macchine di qualità hanno determinato la riprogettazione del lavoro: uno dei segreti di Melfi, come i lettori di Carblogger già sanno è che qui la linea di montaggio è stata costruita assieme da ingegneri e gruppi di operai. C’è infine un altro “dettaglio” che trasforma Melfi “colonia” del Lingotto in Melfi capitale globale dell’auto: da qui non partono solo Fiat ma Jeep, auto americane che saranno vendute agli americani.
I 300 nuovi operai di Melfi, dunque, oggi entrano in una azienda e in una fabbrica enormemente diverse da quelle che 21 anni fa accolsero i loro fratelli maggiori. Non è solo questione di robot e computer. E alla fine della fiera neppure di auto: la posta in gioco è la capacità italiana di ricostruire una rete industriale seconda a nessuno. Ricordate il video del marzo 2014 con gli operai che ballavano proprio nella fabbrica di Melfi? Ne parlammo qui. Forse quella è stata la vera festa per i neoassunti. Il messaggio era chiaro: finalmente il lavoro italiano torna sul palcoscenico a testa alta.
Non è, questo, un messaggio rivoluzionario?
[…] Marchionne è il numero uno in Italia come reputazione sul web, secondo Reputation Manager (mi ci imbatto su Affari & Finanza di Repubblica). Prima di dirvi quale è la posizione di John Elkann, suo azionista di riferimento in FCA, aggiungo che nella classifica stilata per dicembre-gennaio, Marchionne guadagna 1 punto pare sulla scia dell’annuncio di nuove assunzioni nella fabbrica di Melfi. […]