La Chevrolet Volt, l’ibrida plug-in della GM, almeno nella sua versione originale, arriva a fine corsa con qualche mese d’anticipo, e la sua costruzione sarà sospesa a maggio presso la linea di assemblaggio di Hamtramck. I concessionari hanno un invenduto di 221 giorni che è tre volte superiore alla media dei marchi del gruppo; le vendite del primo trimestre si sono fermate a 1.874 vetture, più o meno, quanto i pickup Suburban sempre della GM vendono in un solo giorno, e la distanza dalla capofila Nissan Leaf (4.085 vendite nel primo trimestre) si è fatta intollerabile. In una parola: la Volt è entrata in cortocircuito.

Non è la prima volta che la GM inciampa sull’elettrico. Io ho vissuto da vicino per tutti gli anni ’90 il tormentoso cammino che portò il sogno del concept Impact (in foto in basso) a naufragare nel deserto dell’Arizona, dove alla fine del decennio giaceva la collina-discarica delle mille EV 1 ritirate dal mercato e rottamate tra la sabbia. Negli anni verdi della speranza ho anche guidato il dragster elettrico alla periferia di Detroit: era un catenaccio rigido, pesante quanto un macigno e scomodo quanto una monoposto da Lago Salato.

La GM aveva voluto impartire una lezione di tecnologia mettendo su strada un bolide che aveva più accelerazione di una BMW, ma si era dimenticata di renderla appetibile ad un pubblico più vasto di quello dei pionieri militanti dell’energia catodica. Elon Musk ha imparato la lezione, e dieci anni dopo ha incassato con una Tesla che non cessa di entusiasmare chi la possiede.

La GM invece da quel fallimento sembra non aver imparato nulla. La responsabile del settore elettrico della casa Pam Fletcher ha analizzato recentemente i questionari che vengono compilati dai possessori di Volt, e nei quali si chiedeva come migliorare la vettura in previsione del debutto della seconda generazione in arrivo il 2016 (quella che vedete in foto). La risposta più comune è stata: “Non vogliamo più fare da cavie per un esperimento scientifico”.

In altre parole, non si può mascherare da berlina di lusso una vettura attraversata longitudinalmente da una traversina di batterie che cancellano il quinto posto passeggero, né aggiungere fasce di vetro oscurato per simulare l’estetica di finestrini di dimensione umana, quando la visibilità reale è quella di una feritoia da trincea. Non è giusto chiedere ad un volontario delle nuove tecnologie di studiare il funzionamento di un pannello comandi da aereo, perché non tutti i clienti di auto alternative sono pronti a trasformarsi in ingegneri voltaici, o in ragionieri del chilometraggio per litro, con l’ansia in agguato ogni volta che si accende il climatizzatore, o il mercurio del termometro si alza o si abbassa a seconda della stagione.

Perlomeno questa volta l’avventura non finisce qui, e i superstiti entusiasti della tecnologia a bordo della prima edizione della Volt avranno una seconda chance l’anno prossimo. Da Detroit avvertono che la nuova Volt avrà anche un quinto posto sul sedile posteriore, ma che sarà un po’ stretto. Basterà?

GM Impact

Commenti
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    Perché definirla ibrida plug-in? Da quando? L’errore numero uno della Chevrolet Volt e della defunta gemella Oper Ampera è proprio nel fatto che si tratta di una 100% elettrica, poi resa meno ingestibile piazzandole nel cofano un motorino a scoppio che carica le batterie.

    L’ibrido plug in va a gonfie vele ma si chiama Toyota Prius o Mitusbishi Oulander.

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    Gianluigi,
    GM ha sempre definito Volt e Ampera delle range extender vehicle, di fatto delle ibride plug-in. Non è un caso infatti che l’EPA, Agenzia per la protezione ambientale degli Stati Uniti, abbia classificato le due vetture americane delle plug-in hybrid.
    Non possono essere definite elettriche al 100% come dice lei avendo a bordo un motore a benzina. La vera discriminante per definire un’auto elettrica è il tubo di scarico: se c’è non è un’elettrica, se è assente lo è.
    A proposito di Outlander: http://www.carblogger.it/blog/2015/04/01/mitsubishi-outlander-il-successo-di-una-quasi-elettrica/
    Grazie.

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