Il caso Volkswagen non finisce di stupire. E di sollevare sempre più interrogativi su come la dirigenza stia gestendo la crisi. L’altra sera mi scrive una amica che per lavoro si occupa di finanza e che dunque non è certo, come dire, una timorosa di Dio. “Ma l’hai letto questo?”, mi fa a un’ora in cui non credevo si occupasse più né di finanza né di Volkswagen e meno che mai di etica.

Perché di etica, innanzitutto, si tratta. “Insomma, leggi cosa fa la Volkswagen, la fonte è il New York Times ma io l’ho letto qui su Jalopnik”. Butto lì che a Jalopnik sono bravi, sono quelli che hanno fatto arrabbiare Marchionne pubblicando le prime foto della Jeep Renegade alla vigilia della presentazione.

Allora, che dice Jalopnik a proposito di Volkswagen? “In pratica – mi scrive la mia amica esperta di finanza – tra gli impiegati della Volkswagen chiunque possa fornire informazioni sul Dieselgate non verrà licenziato. Vabbè, non li licenzieranno ma probabilmente la loro carriera sarà finita, oppure li promuoveranno per aver fornito informazioni?”.

Già, rispondo non sicuro di dove la mia amica intendesse andare a parare. Insiste: “Senti, ma secondo te quello di cui ha bisogno Volkswagen adesso è un’amnistia? O non dovrebbero concentrarsi sulla rifondazione di valori e di principi che forse si sono un po’ persi per strada? Facendo l’amnistia si apre la caccia alle streghe, tutti saranno ancora più sulla difensiva perché non sanno cosa potrebbe dire il collega di fianco. Si creerà una situazione ‘guardinga’ che sicuramente non favorisce la creazione di un rinnovato spirito di squadra e di ideali condivisi di cui Volkswagen avrebbe più bisogno in questo momento. Ciao”.

Ciao, e un buonanotte meditabondo. Ma quanto ha ragione la mia amica, da uno a cento?

Cento.

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