In mia opinione la risposta alla domanda finale dell’articolo è semplice: certo che consegnerebbero i dati.
Anche Apple ha consegnato i dati dei backup relativi ai backup iCloud del telefono, che però sono stati disattivati due settimane prima della strage. Nulla di strano, Apple è un’azienda americana, ed ha sempre risposto alle subpoena, o citazioni, che le vengono inoltrate dalle varie agenzie governative, se relative a dati in loro possesso. Lo fanno praticamente tutti, dato che la legge è abbastanza chiara e lascia poco spazio ad interpretazioni. Proprio per questo molte aziende del ramo elettronico, come Apple, sviluppano pratiche di sicurezza che rendono l’utente finale unica persona in possesso dei codici per sbloccare i dati: in tal modo “se ne lavano le mani”, potendo fare orecchie da mercante alle citazioni, dato che, anche volendo, non possono far molto per ottenere i dati.
Proprio in virtù di questo Apple si rifiuta di aiutare l’FBI nella creazione di un modo per agevolare lo sblocco il telefono, con il pretesto di non creare un precedente (dato che, come sappiamo, il sistema giudiziario dei paesi anglosassoni si basa sull’applicazione dei precedenti). Personalmente sono dalla parte di coloro che propendono per lo sblocco, sia perché sarebbe un disincentivo verso lo sviluppo di soluzioni più profonde per estrarre dati da questi dispositivi, magari applicate su scala più massiccia, sia perché, pur creando un precedente, esso si applicherebbe solo a questo caso: il metodo di sblocco teorizzato dai federali vale solo per il modello in questione (iPhone 5C), in quanto i modelli successivi hanno già una funzione che complica le cose e rende veramente difficile lo sblocco (a meno che non si possieda l’impronta digitale dell’interessato, quindi, in tal caso, con il cadavere in loro possesso, sarebbe alquanto facile), ed Apple ha già annunciato che sta lavorando per tappare la “falla” che verrebbe usata per lo sblocco richiesto dal bureau nelle prossime versioni del sistema.
Tornando al discorso generale, secondo me sono due gli spunti su cui riflettere: da un lato, in un mondo dove Edward Snowden ha rivelato l’esistenza di programmi come PRISM, quanto sia saggio fidarsi di aziende che hanno dimostrato la propria disponibilità (in alcuni casi forzata, in altri volontaria) a collaborare attivamente (non solo in seguito a citazioni o mandati) con i governi per soluzioni sulla raccolta di dati; dall’altro bisogna domandarsi quanta importanza diamo alla nostra privacy: da anni oramai viviamo in un compromesso. E’ ancora possibile vivere senza lasciare tracce indesiderate, ma, quando aderiamo ad un servizio che prevede la raccolta di dati, dobbiamo essere consci del compromesso che accettiamo. Ogni volta che mandiamo una mail, usiamo una carta di credito, o facciamo una telefonata, nessuno ci obbliga. Siamo noi a farlo. E dobbiamo avere un’idea di quanto ciò comporti. Dal canto mio, considerando i miei dati coinvolti, il compromesso, per ora, lo accetto. Magari in futuro cambierò idea, oppure me la faranno cambiare. Ma una cosa che resterà sempre certa è che quei dati, in modi più o meno legali, se saranno in possesso di qualcuno oltre a me, possono senza troppa difficoltà essere condivisi con gli inquirenti.