Lui era diverso. Te ne accorgevi subito. Il look era vagamente insolito e se lo poteva permettere, visto il fisico alto e asciutto, con la pelata e la barba, i panciotti e qualche tocco di colore troppo acceso rispetto all’eleganza anonima d’ordinanza degli amministratori delegati. Poi sorrideva, apriva la bocca e ne avevi la certezza.

Accento più tipico di una gricia, che divorava ogni possibile stereotipo con quella voce roca, grattata, e l’eloquio esplosivo, veloce, quanto il suo cervello. Lui non parlava romano, lui ERA romano. In tutto: ironia, fede calcistica, schiettezza, causticità, ricordi, vita, amori. E non si vergognava di niente: non della gioventù semplice e – a suo dire – un po’ da ragazzaccio, non delle sue origini da self-made man, del suo inglese discutibile, per non parlare dell’italiano: era finito a dirigere una casa i cui modelli erano pieni di “ics” nel nome e mai che gliene abbia sentita pronunciare una giusta. Ciccinque, emmeiccinque, cisstre. Masda sei, oh armeno.

Ma tanto lui non ne aveva bisogno, di questi dettagli. Lui era lui, oltre. Aveva cominciato con le moto, mi raccontava di quando gli avevano dato da raddrizzare la rete di vendita Honda – o era Ducati, vabbé, di nuovo, dettagli – e di certi concessionari in Sicilia, nei cortili, nascosti. Poi l’incontro con quella che è all’apparenza la sua antitesi umana, il Giappone: amore. Come facesse uno così – che parlava, viveva, si muoveva e pensava sempre forte – a lavorare coi giapponesi, muti e severi, ti veniva da chiedertelo ogni volta. Mi sono sempre risposto che però era Mazda e questo faceva onore non solo a lui, ma anche all’azienda. L’Alfa Romeo nipponica, la giapponese più e meno giapponese che c’è, lo spirito di Hiroshima Rising, come il titolo del libro fotografico che mi sono portato a casa dall’ultima conferenza al Mazda Space di Barcellona, in cui – come ogni volta – eravamo rimasti in piedi fino a tardi a chiacchierare, fumare, bere, ridere, vivere.

Era un uomo, era umano. Ed era orgoglioso, felice di quello che era e di quello che faceva. La famiglia, la moglie, le figlie: si lamentava del solito, troppo poco tempo con loro. Erano parte fondante di lui. E l’azienda, Mazda. Mi diceva che gli sarebbe piaciuto, un giorno, andare a lavorare là, in Giappone, a casa, nel cuore di quel mondo intimamente giapponese e cosmopolita allo stesso tempo che lo aveva accolto e che lui aveva abbracciato forte, completamente, stretto, nell’unico modo davvero suo.

Era un venditore di razza che conosceva i venditori, che si era fatto strada con tanto lavoro, tanta consapevolezza di forze e limiti, fino a là: CEO. Era una bella favola, del ragazzo di borgata che passa una gioventù un po’ guascona, poi capisce cosa fa davvero felice un uomo e lascia la MX-5 aziendale – la sua prima richiesta quando lui e Mazda si sono scelti, sempre a suo dire – per CX-5 e Mazda 6. Auto da buon padre di famiglia, ma comunque sanguigno: una delle ultime sigarette che ci siamo fumati insieme – di nascosto, dietro allo stand Mazda all’ultimo salone di Ginevra – l’ha dedicata a raccontarmi delle sue performance sul GRA a seminare le premium tedesche.

Era entusiasta, energico, straripante, contagioso. Si faceva serio quando parlava di Mazda e ripeteva che era l’unica ad avere nell’atto costitutivo, scritto nero su bianco, la missione di contribuire al miglioramento, al benessere della sua comunità, quella di Hiroshima, e del genere umano. Ci credeva, quando lo diceva.

Non so se mi considerasse un amico. So che per me lo era, uno dei pochi nel lavoro e uno dei pochissimi dall’altra parte della barricata. Mi dicevo, a volte, che la sua Mazda era una casa per cui mi sarebbe piaciuto davvero lavorare. La sua eh, non una Mazda qualunque, ma la sua idea di un’azienda che si sta reinventando e sta tirando fuori prodotti che lo facevano sorridere e gli davano sicurezza nel futuro, che lo rendevano fiero. E che allo stesso tempo gli facevano sentire la responsabilità di formare una mentalità e una rete in grado di farli brillare, quei gioielli che gli illuminavano gli occhi.

Di lui non ho ricordi ma testimonianze di vita, vitalità, umanità, amore, professionalità. Tutte, inconfondibilmente sue. Ciao Andrea l’amico, ciao Andrea l’uomo, ciao Andrea il compagno di chiacchiere e sigarette, forse e mai troppe. Ciao Andrea Fiaschetti Amministratore Delegato di Mazda Italia. E grazie, di tutto.

Commenti
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    Hai scritto delle parole bellissime, è emozionante leggere quanto l’essenza di Andrea ti sia arrivata e rimasta nel cuore.

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    Io un piccolo uomo all’interno di una concessionaria che faceva parte di una grande famiglia come piaceva ad Andrea. Un uomo che trasmetteva entusiasmo e contagiosa voglia di fare senza fermarsi mai. Senza pensare alle difficoltà ma andando sempre oltre certo di essere nel giusto, sulla strada giusta. Una sua parola era sempre un incitamento e aveva il pregio di farti pensare ma soprattutto di entusiasmarti. Era speciale nella Sua genuinità ma nella semplicità con cui poteva parlare con suoi pari o con me piccolo uomo attraendo e catalizzando qualsiasi platea con la certezza che tutti dopo le sue parole lo avrebbero seguito. Grazie Presidente. Grazie Andrea. Probabilmente nella Sua squadra il Signore aveva bisogno di Te!

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