Premessa: non faccio di mestiere il difensore della Fiat e di Sergio Marchionne ma ho sempre tifato per le ragioni dell’industria in un Paese, come l’Italia, permeato da una profonda cultura anti-industriale. Per questo motivo il post di Francesco sul miracolo Volvo coronato dall’assunzione di 400 ingegneri scandinavi contrapposto al “mi viene da piangere” per quanto “non accade” con il nostro “costruttore nazionale” a mio parere merita un supplemento di riflessione.
Il punto è: perché in Italia il “costruttore nazionale” gode di così pessima fama? Chiunque può andare su internet e “scoprire” i dettagli dei progetti che il Lingotto porta avanti con una dozzina di università italiane a partire dal Politecnico di Torino (recentemente gemellato con quello di Windsor, in Canada) per finire con  quelle di Potenza o di Cassino, meno blasonate ma strategiche per il territorio e i giovani centro-meridionali. Chiunque può impegnare altri due minuti per verificare che l’anno scorso sono state effettuate in Italia da Fiat quasi 3.000 assunzioni, fra quelle molto pompate di Melfi (1.850) a quelle meno note della Marelli Fari  di Tolmezzo (oltre 300), senza contare i 600 nuovi ingegneri “skunk”, magari meno biondi di quelli scandinavi, per due anni “segretamente” all’opera tra Modena, Cassino, Pratola Serra, Termoli, Cento (Ferrara) e le fonderie della Teksid di Carmagnola sui modelli e i motori in alluminio dell’Alfa Romeo.
E poiché la Scandinavia è famosa per il suo welfare, potrei dilungarmi persino sul sistema di assistenza aziendale di Fiat, in particolare l’attenzione medica verso le lavoratrici in fabbrica, che non ha quasi nulla da invidiare alla Svezia né a modelli giustamente glorificati in Italia come quello di Luxottica.
Ma il punto è: perché tutto questo bendiddio è ignorato?
In altre occasioni, ho scritto che uno dei meriti di Sergio Marchionne è quello di aver trasformato Fiat e Chrysler in una azienda a bassa gerarchia (il che non vuol dire non avere capi) con il Lingotto e Auburn Hills svuotati di gran arte dei loro dirigenti e del colesterolo burocratico (parole di Marchionne) che aveva soffocato entrambe le società. Quest’operazione, a mio giudizio, è “la” ragione che consente a una struttura con molte debolezze come Fca di stare in piedi e di provare a tenere il passo con bulldozer schiacciasassi e a forte densità ingegneristica del calibro di Toyota e Volkswagen.
Ma la “no hierarchy zone” ha un difetto gravissimo: impedisce all’azienda di comunicare all’esterno. Se ci fate caso, in Italia esiste la comunicazione di Marchionne ma non quella di Fiat, dove per comunicazione non intendo la descrizione dei modelli e dei motori ma la “filosofia politica e culturale” di un’azienda leader e per certi aspetti ancora “simbolo” nazionale.
Fiat per decenni è stata la bandiera dell’industria italiana. I suoi alfieri non erano solo l’Avvocato, Umberto, Romiti o Ghidella. Grandi Vecchi aziendali come Paolo Annibaldi o Carlo Calleri o Paolo Rebaudengo hanno scolpito interi pezzi della storia e della cultura industriale e/o sindacale italiana. Giuste o sbagliate che fossero le loro idee, gli italiani li percepivano come punti di riferimento dell’intera comunità, non come semplici esecutori della volontà della Famiglia Agnelli.
Tutto questo è finito. Ecco perché nessuno sa e nessuno discute della vittoria strategica di Marchionne nella battaglia contro la Fiom e contro la Confindustria iniziata nel 2010 a Pomigliano. Quella fabbrica-disastro è stata trasformata in un gioiello persino troppo produttivo come prova non tanto il crollo verticale delle difettosità della Panda ma persino l’episodio dello sciopero di qualche giorno fa indetto da tutti i sindacati  contro gli incidenti sul lavoro cui hanno aderito appena 60 operai su 1.200.
Pomigliano dimostra che la Fiat (non Marchionne) non è più in grado di raccontare agli italiani neanche le sue vittorie “politiche”, figuriamoci di far circolare un po’ di info sui suoi rapporti con le università, le sue assunzioni e il suo welfare aziendale.
Pomigliano poteva rappresentare una “svolta culturale” enorme per un Paese, come l’Italia, che se non riprendere a crescere e a puntare sulla manifattura, mette a rischio il suo futuro. Da quella fabbrica poteva partire un messaggio persino più forte di quello lanciato con la marcia dei 40.000 nel 1980 a patto di volerla e saperla trasformare in un simbolo di sviluppo. Come seppe fare la Fiat del dopoguerra per tutti gli italiani.
Commenti
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    Un discorso simile, e credo correlato, si potrebbe fare anche riguardo al marketing FCA: non si sanno vendere. Basta guardare cosa hanno combinato con la Giulia, tra ritardi, gamma iniziale misera, nessun accenno al ritorno alle gare, niente di tutto ciò che dovrebbe garantire almeno su carta un potenziale successo commerciale che faccia davvero impensierire la solita Triade Tedesca.
    Che poi altro che “colesterolo burocratico”, il maglionne defenestra a destra e a manca soltanto per fare il dittatorello e speculare indisturbato con i suoi giochetti finanziari.
    Sinceramente io non credo e non crederò mai a una sola mezza parola di costui, nemmeno quando verrà il suo momento di farsi da parte – già posticipato di qualche mese, guarda caso.

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    Il commento sopra, dice esattamente il contrario di quello che tende a comunicare l’autore di questo articolo.
    Incolpa Marchionne di tutto, e lo giudica non credibile, quando invece dobbiamo a lui la Fca di oggi (5° Costruttore Mondiale, nata dalle ceneri della poco più che nazionale azienda del 2008, che oggi sarebbe già fallita).
    Ma per contro dimostra, nel caso ancora ne avessimo bisogno, quanto sia l’italiano medio a non credere nelle proprie potenzialità, arrendendosi ancora prima di partire o incolpando sempre gli altri di insuccessi e mai facendo proposte costruttive sul come migliorare se stessi e gli altri.

    Invece io condivido l’articolo che propone l’autore, e credo che il rilancio di Fiat e tutti gli altri Brand del gruppo a livello di immagine, dovrebbe partire proprio da questa grande carenza di comunicazione, più che investimenti con scarsi ritorni nelle corse.

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    Veramente FCA attualmente si barcamena tra il settimo e il sesto posto tra big globali. Al quinto non c’è mai arrivata.
    Il motorsport genera scarsi ritorni? Beh allora Porsche, Audi, VW, Ford, Renault, Mercedes, Toyota, BMW devono essere tutti impazziti se ci investono così tanto!
    Il ritorno non è tanto quello economico, ma proprio quello d’immagine. Niente e nessuno potrà sostituire l’efficacia di una vetrina come quella delle gare.
    Ricordiamoci che Alfa è nata sulle piste, è la madre della Ferrari, come avrebbe detto il Drake. Cercare un rilancio negandone al contempo la sua natura in modo così sfacciato è semplicemente roba da malati mentali.

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