Mi capita sotto gli occhi l’atto giudiziario di una corte del Michigan per l‘arresto di Oliver Schmidt, nel 2015 dirigente Volkswagen in Nordamerica a capo del settore conformità con le norme statunitensi. Schmidt è stato arrestato sabato scorso nell’ambito delle indagini sul Dieselgate, lo scandalo sulle emissioni truccate da un software, iniziato nel settembre di quell’anno con le prime ammissioni del gruppo tedesco.. L’atto d’accusa, firmato da un agente speciale dell’Fbi specializzato in frodi ambientali, è durissimo: in 18 pagine la parole più ricorrente è “conspiracy”, complotto.

Volkswagen ha trattato con le autorità giudiziarie statunitensi un accordo del valore di 4,3 miliardi di dollari, con riconoscimento di colpa. Accordo tombale solo per le pene pecuniarie, non per quelle penali personali, tant’è che il Dipartimento di giustizia ha annunciato, insieme al patteggiamento, di avere messo sotto inchiesta altri cinque manager del gruppo tedesco. Tutti colleghi di Schmidt, stesse pesanti accuse. Loro però sono cautamente rimasti in Germania, da dove non credo verranno mai estradati. Ma certo non potranno più mettere piede negli Usa se non affronteranno la giustizia statunitense.

Rileggendo l’atto d’accusa dell’investigatore dell’Fbi, continuo ancora oggi a stupirmi su come Volkswagen, gruppo non secondo a nessuno in quanto a risorse e capacità in ricerca e sviluppo, abbia pensato di mettere in piedi impunemente questa storiaccia. Volkswagen sta comunque chiudendo il caso a un prezzo salatissimo rispetto anche ad altri scandali dell’auto, (siamo a oltre 20 miliardi di dollari), con l’arresto di Schmidt in Florida che sa di pistola alla tempia.

C’è tuttavia un paradosso politico in questo epilogo.. A rilevare la violazione della legge da parte del gruppo tedesco è stata l’agenzia federale per l’ambiente, l’Epa, che l’amministrazione Obama teneva in gran conto e che l’amministrazione Trump vuole marginalizzare, affidandola a un dirigente che disconosce i rischi per l’ambiente da cambiamento climatico.

Nonostante ciò, Volkswagen ha spinto per chiudere la partita prima che Trump entrasse in carica il 20 gennaio. L’impressione è che a Wolfsburg non si fidino di un presidente – benché di origini tedesche da parte di padre – populista e nazionalista. Che ama deprimere un titolo in borsa o abbattere una reputazione con un tweet. Capace di sfiduciare l’operato dei propri servizi segreti, chissà cosa potrebbe fare nei confronti di un Dipartimento della giustizia.

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