L’1 giugno Marchionne racconta il nuovo piano industriale di Fiat Chrysler che eseguirà in gran parte il suo successore, lasciando lui la carica di amministratore delegato di Fca alla fine dell’anno. Di Maio e Salvini raccontano oggi il loro “contratto” di governo che “eseguirà” un presidente del consiglio da nominare. Due incertezze non fanno una certezza: rimangono due punti interrogativi, che nemmeno si aiutano a vicenda.

Marchionne ha un piano di cui da tempo parla (e si parla, come Bloomberg) e che ricalca negli obiettivi finanziari (gli unici che pare gli stiano veramente a cuore) quello attuato negli ultimi due anni negli Stati Uniti: riconvertire le fabbriche del gruppo a una produzione che garantisca maggiori margini.

Negli Usa ci è riuscito portando sulle linee soltanto suv e pick up, in Italia intende fare soltanto modelli Alfa Romeo, Maserati e Jeep dai prezzi e dagli utili più alti, ma anche dai volumi minori, almeno per i due marchi italiani.

Tifando per il lavoro in Italia, tifiamo per proprietà transitiva e in questo senso anche per la realizzazione del piano, se così è. Il resto sarà parola al mercato.

Marchionne lancia tuttavia il suo piano di riconversione industriale in un paese sempre più deindustrializzato. A fronte di un “contratto” di governo di Di Maio e Salvini in cui non c’è traccia di piano industriale per l’Italia. C’è un accenno sull’Ilva, c’è un accenno sulla green economy e nulla più.

Per venerdì scorso, il 25 e il 28 maggio Fiat Chrysler ha annunciato altri tre giorni di cassa integrazione ordinaria a Mirafiori. Cattivo segno. Non ho mai sentito parlare Di Maio e Salvini degli stabilimenti Fiat in Italia. Nemmeno di Fiat. “Non mi spaventano”, ha detto Marchionne dei due nel marzo scorso al salone di Ginevra. Beato lui.

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