Tutto cominciò con un’Alfa 159 che arrivò al concessionario direttamente dalla fabbrica con i due sedili anteriori di colore diverso. Era l’autunno del 2007 e l’Alfa proveniva dallo stabilimento di Pomigliano. L’episodio – finora inedito – determinò alcuni giorni di lutto nel gruppo dirigente dello stabilimento campano ma soprattutto scatenò l’ira e la forza dell’allora amministratore delegato della sola Fiat, Sergio Marchionne.

Poche settimane dopo, all’inizio del 2008, dunque prima che la Grande Crisi dei subprime iniziasse a trinciare lavoratori e fabbriche nel mondo, Marchionne chiuse le linee di montaggio di Pomigliano per tre mesi. Aveva stanziato 100 milioni per ristrutturare le docce e le mense del vecchio stabilimento Alfasud ma soprattutto per obbligare tutti i 5.000 operai a frequentare corsi di formazione (chi non firmava alle lezioni non veniva retribuito) dedicati a ricostruire i rapporti di lavoro e professionali nella fabbrica napoletana che aveva la fama d’essere la peggiore d’Europa per assenteismo (punte del 17%) e qualità del prodotto.

All’epoca io mi occupavo di tutt’altro. Ma la notizia della “sospensione del lavoro” a Pomigliano, riportata in poche righe dai giornali, mi incuriosì moltissimo. Quale manager italiano aveva mai fermato la produzione di una grande fabbrica per istruirne il personale? Ma chi era davvero questo Marchionne?

Cinque anni dopo, una mattina del 2012, ero dentro quella fabbrica. Nel frattempo era cambiato il mondo. E la chiusura di Pomigliano era durata in realtà quattro anni durante i quali Marchionne – tra mille altre cose – aveva lanciato e poi ritirato il piano Fabbrica Italia, del quale era rimasto in piedi solo il progetto di riportare in Italia l’assemblaggio della mitica Panda. Che era finita dall’efficientissimo stabilimento polacco di Tychy proprio nella scassatissima Pomigliano.

Quella mattina del 2012, quando Marchionne controllava ancora solo  il 20% di Chrysler, nell’ambito di una indagine universitaria alla quale collaboravo oltrepassai la grande scritta “Noi siamo quello che facciamo” che campeggia sul vialone della fabbrica campana. Entrare nel capannone del  montaggio fu come finire in un immenso palcoscenico da Truman Show: ordine, pavimenti specchiati e senza l’ombra di una vite per terra (mai vista tanta pulizia in altre fabbriche), tanti cartelloni in giro con tante informazioni collettive come una grande aula universitaria parlante e coinvolgente, operai con tute appena uscite dalla lavatrice, buon ritmo di lavoro ma nessuno con le braccia alzate. Certo, non doveva essere il Mulino Bianco, ma accidenti se funziona: è arrivata a sfornare una Panda ogni 55 secondi.

Mi accorsi non senza sorpresa che la fabbrica era nelle mani di alcune giovani donne, tutte ingegneri meccaniche e napoletane. Vestivano la stessa tuta degli operai e i loro uffici non erano più nel grattacielo all’ingresso dello stabilimento  ma lungo le linee di montaggio, separati dagli operai da un semplice cristallo. Una di loro, la shift manager di turno, ovvero la responsabile dei 900 operai del turno, si offrì di accompagnarmi ai “tavoli della vergogna”, come vengono chiamati i tavolini lungo le linee dove gli operai depositano i pezzi che riconoscono come difettosi. Nel tragitto mi raccontò che l’assenteismo medio era sceso sotto il 2%.

Non voglio tediarvi con mille sigle tecniche (Wcm, Ergo-Uas, team leader, dominio, Work Place Integration) che plasmarono quel mio incontro con una fabbrica d’auto nella scoperta di una immensa sala di chirurgia miracolosamente spuntata sotto il Vesuvio. Chi non ci crede visiti Pomigliano, a patto di stare lontano dal teatrino di giornali e tv. E – magari – si diverta a scoprire il lato pignolo dei napoletani che, ogni volta che in quella fabbrica respingono i singoli pezzi difettosi, aggiornano pubblicamente su grandi cartelloni il  rating, giornaliero, settimanale, mensile e trimestrale del fornitore fedifrago dopo aver convocato d’urgenza via mail il rappresentante della ditta “colpevole” chiamato a bonificare di persona il magazzino da eventuali altri pezzi difettosi.

Debbo raccontare però la cosa che mi colpì di più. Camminando al fianco della shift manager, ad un certo punto spuntò sul pavimento immacolato del  montaggio un ricciolo di cartone, non più grande di due o tre centimetri. Un niente. Qualcuno aveva fatto cadere a terra un pezzo di scotch che avvolgeva uno scatola. L’ingegnere donna non ordinò nulla a nessuno e davanti a una trentina di operai si chinò, raccolse la cartaccia e la depositò nel secchio del riciclo. Questo accadeva nella stessa Campania travolta dai cumuli d’immondizia.

In quel momento – dunque molto prima della beatificazione talvolta grottesca di questi giorni –  sono diventato un fan di Sergio Marchionne. Vengo da anni di critiche e sfottò. “Fiat? E’ sempre Fiat. Chi ti da la certezza che ce la farà? Non ti accorgi che è un finanziere che vuole vendere la baracca e sfruttare gli operai?”, mi hanno detto quasi tutti facendo emergere più o meno inconsapevolmente quel collante collettivo di cinismo che  impedisce agli italiani di credere davvero in qualcosa.

Ma gli illusi erano loro. La verità era che non volevano sapere quanto Sergio Marchionne avesse fatto cambiare in profondità e in meglio la qualità del lavoro italiano a partire dalla ristrutturazione della peggior fabbrica d’Europa. Loro non conoscevano la rabbia di quella graziosa ingegnere napoletana che mai più sarebbe tornata ai tempi dei sedili di colore diverso.

Fu lei a farmi capire che Pomigliano rappresentava un messaggio politico e culturale, non solo economico: la carta migliore per cercare di giocare ad armi pari con i tedeschi in Europa e con americani e cinesi nel mondo. E’ vero: Fabbrica Italia non è  mai nata. Ma la realtà, come dice Hegel, filosofo spesso citato da Marchionne, è intimamente contraddittoria: la rete di “fabbriche belle” come quella di Pomigliano è l’eredità più preziosa che lui ha lasciato a tutti gli italiani.

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