Herbert Diess e Jacline Mouraud: che c’entrano il ceo di Volkswagen e la pasionaria del movimento dei gilet gialli che sta facendo tremare il governo francese e l’establishment di mezza Europa? Apparentemente nulla, se non che Diess è uno dei rappresentanti di punta di quello che Riccardo Ruggeri definisce, con una sintesi perfetta, “ceo capitalism“, inteso come un nuovo sistema di ordine mondiale governato da élite economiche. Ciò che il movimento dei gilet gialli sta appunto mettendo in discussione.
Eppure, le ultime dichiarazioni di Diess sui costi di quelli che dovrebbero essere i nuovi limiti di emissioni 2030, attualmente in discussione a Bruxelles, lasciano pensare che, almeno intorno all’auto, ci possa essere una comunione di interessi tra questi due mondi che sembrano così lontani e contrapposti.
Non sembra un caso che sia proprio Diess a citare le rivendicazioni dei gilet gialli, riferendosi a una battaglia iniziata per “10 centesimi al litro di aumento del prezzo del diesel “- memorabili sul punto le parole della Mouraud in un video che ha fatto il giro di tutta Europa – quando il costo per i consumatori dei nuovi target 2030 arriverebbe a un 30% di aumento del listino per auto come la piccola Polo.
Il dato di fondo è che, per raggiungere i possibili target 2030, il gruppo Volkswagen dovrebbe arrivare ad un mix di vendite di vetture elettriche di circa il 50%, quando oggi non arriva neanche al 5%, plug in compreso.
Al di là di ogni discussione sulla sostenibilità per l’intero sistema di una accelerazione così repentina dell’elettrificazione pura, alla fine saranno i consumatori europei a non essere in grado di pagare il conto. Sanno tutti che a parte qualche isola felice qui e lì – prima tra tutte la Norvegia, che, grazie a cospicui incentivi, nel quarto trimestre 2018 raggiunge il 40% di vendite di elettriche, un record mondiale – non c’è automobilista medio europeo che si può permettere il prezzo di un’elettrica. Sicuramente in assenza di incentivi, ma in molti casi anche con il livello di sostegno che si è visto finora nei vari mercati del continente.
Viene da pensare: perché ci si è spinti così in avanti? Perché i rappresentanti politici di paesi come la Germania, capaci di dettare su molti dossier l’agenda dell’Unione, non si sono resi conto che – con i limiti richiesti dalla Commissione e avallati dal Parlamento – si stava andando troppo in là. Distrazione? Effetto dieselgate sulle coscienze dei cosiddetti policy makers e dell’opinione pubblica in generale?
Si può dire il combinato disposto di questi fattori, ma anche e soprattutto un doppio errore strategico da parte dell’industria europea e in primis tedesca: non aver investito seriamente sull’ibrido – scommettendo tutto sul diesel e facendosi fare una regolamentazione ad hoc per favorirne la diffusione – e aver puntato tutto sull’elettrico come reazione al dieselgate.
L’effetto più grave di tale reazione è stato mettere nella testa del legislatore europeo l’idea che si potesse calcare la mano sui nuovi limiti 2030: che importa, tanto le nuove vetture saranno tutte a zero emissioni. I nodi sono però arrivati al pettine molto presto: costi di produzione elevati – dipendenti in gran parte dal prezzo delle materie prime necessarie a costruire le batterie, materie che scarseggiano e di cui la Cina ha di fatto il monopolio – e ancora di più costi sociali insostenibili – la metà delle fabbriche Volkswagen che producono oggi motori a combustione interna dovrebbero chiudere, afferma il top manager tedesco.
Ecco allora ciò che sembra l’intuizione di Diess: uscire dal vicolo cieco dell’elettrico, trovando sponda nel campo avversario e facendo proprie le istanze di un movimento di protesta come quello dei gilet gialli, che rivendica maggiore giustizia sociale e un modello di redistribuzione della ricchezza più equo. Così, anche i policy maker avranno una buona scusa per rivedere al ribasso i target 2030. Magari in nome del diesel, e così sia.
Mi pare il minimo della ragionevolezza.