Jean-Dominique Senard, presidente della Renault, è un prodotto della migliore classe dirigente francese fin dal suo aspetto fisico: alto, elegante, occhi chiari, “magro come solo i ricchi sanno essere magri” ha scritto La Stampa, sorriso educato e sguardo fermo. Aristocratico e figlio di un diplomatico, è proprietario di un castello e produttore di vini raffinati. Una società ordinata, solida e guidata dall’alto come quella francese lo ha selezionato e “costruito” per assegnarlo alla direzione dello sviluppo industriale del Paese. E infatti il suo curriculum dimostra come sia entrato e uscito da tutte le grandi imprese del Paese indifferentemente se private o pubbliche: Total, Pechiney, Saint Gobain, Michelin. Da cinque mesi è stato chiamato dal ministro dell’Economia, Bruno Le Maire, al capezzale della Renault orfana di un fuoriclasse come Carlos Ghosn. 

Per noi italiani, Senard sarebbe un “capo” francese come tanti, con i quali antipatizziamo volentieri anche se sotto sotto ne soffriamo la superiorità: quadrati, “volterranneamente” razionali e soprattutto con il cuore che batte all’unisono per la Francia e per l’Etat (lo Stato).  Un guerriero colbertiano catapultato dentro la globalizzazione.

Ma da due settimane a questa parte, da quando è stato squadernato in pubblico il dossier della possibile fusione Renault-Fca, Jean-Dominique Senard è diventato il protagonista di una trasformazione, umana e professionale, drammatica e al tempo stesso affascinante.

Il fedele e sperimentato civil servant della Francia si è pubblicamente ribellato a Le Maire, il ministro che lo aveva piazzato alla regia della Renault, praticamente supplicandolo (che in Francia vuol dire urlare) sui giornali di non tirare la corda con Fiat.

La Francia raramente ha assistito, in chiaro, a un evento del genere.

All’assemblea dell’altro giorno della Renault davanti a 900 azionisti e ai giornalisti di mezzo mondo, la rottura fra Senard e Le Maire ha fatto un salto di qualità. Senard invece di attenuare i toni della polemica contro l’Etat, li ha portati al diapason trasformandosi nel più raffinato gilet giallo antisistema di tutta la Francia. 

Quasi commuovendosi, usando toni allarmati e partecipati (andate al minuto 2.14.30), aggettivi inusuali (“Quello con Fiat era un matrimonio unico ed eccezionale”) Senard ha difeso il suo operato dipingendo la fusione come un progetto visionario destinato a difendere i posti di lavoro europei dallo tsunami dell’imminente invasione dell’auto cinese. Senard è sembrato disperatamente conscio che lo Stato francese tiene Renault, di cui ha il 15% delle azioni e il 28% dei diritti di voto, in una sorta di prigione dorata nella quale rischia di soffocare alla prossima recessione. Un tema che una decina di anni fa Sergio Marchionne ha affrontato e risolto staccando la Fiat dall’Italietta delle mille rendite di posizione.

E infatti, lentamente, in piano americano, il manager ha pronunciato la frase chiave: “Io (evidentemente non Le Maire, ndr) ho fatto gli interessi della Francia, di Renault e dell’Europa”. Perché a suo dire la fusione con Fiat avrebbe consentito di sviluppare meglio la rete industriale francese e fatto nascere un gigante europeo dei quali tutti, a partire da Macron, lamentano la mancanza.

Un grande sceneggiatore americano non sarebbe stato capace di scrivere un testo altrettanto drammatico e profondo sulle contraddizioni e sulle nevrosi francesi. In alcuni passaggi Senard è sembrato ricordare quel colonnello Dax che nel celeberrimo “Orizzonti di Gloria” di Stanley Kubrick, tenta di rompere l’infernale meccanismo militare francese destinato a stritolare non il nemico ma i soldati del proprio esercito.

A differenza della Fiat e come accade a Dax, probabilmente la rivolta di Jean-Dominique Senard contro il nazionalismo economico di cui egli stesso è figlio risulterà perdente. Ma l’uomo, il manager e il civil servant francese hanno conquistato sul campo rispetto e considerazione.

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