Mettetevi nei panni dei poveri azionisti del gruppo Volkswagen, essenzialmente un paio di famiglie dai nomi altisonanti come Porsche e Piech più quella della politica della Bassa Sassonia con il 20% delle azioni (se servisse, un filo diretto con Berlino). Al loro manager al volante, Herbert Diess, a metà novembre mettono in tasca fino a 73 miliardi di euro per lo sviluppo di elettrificazione e digitale da spendere in cinque anni, quota parte mica da ridere dei complessivi 150 in ballo. E Diess che fa?

Passano due settimane e chiede al consiglio di sorveglianza, un gradino più su del consiglio di amministrazione, di discutere subito – e non un anno prima del termine, come in genere si usa da quelle parti – una estensione del suo contratto quinquennale in scadenza nell’aprile del 2023. Per altro, per la legge tedesca Diess dovrebbe andare in pensione nel giugno del 2024 a 65 anni e 9 mesi. Con possibilità di arrivare al 67. Ma oggi questa sembra pura teoria.

Il punto è un altro: Diess ha chiesto a brutto muso l’estensione del contratto da ceo come un voto di fiducia al suo operato, che ritiene messo in discussione dal sindacato oltre che probabilmente da qualche fronda interna nel top management. Quando scoppiano tensioni forti, le coincidenze spesso non lo sono.

Diess sta traghettando il più grande gruppo mondiale dell’auto in un’era fatta quasi esclusivamente di volt e di software. Viaggio di sola andata, per il quale non prevede fermate di nessun tipo (se non la sua). Coraggio, rischio, una dose di arroganza che non manca mai. Ma il sindacato si sarebbe opposto ad alcune sue nomine.

Aumma aumma, come non si dice a Wolfsburg, il supervisory board di Volkswagen si riunisce e fa trapelare che una discussione continuerà. Decide di non decidere.

Così il caso Diess non è chiuso. In effetti con la sua mossa irrituale ha sfidato innanzitutto la Mitbestimmung, la cogestione che regola il governo dell’economia in Germania. E lo ha fatto pure in pubblico, scrivendo per Handelsblatt che intende rompere strutture definite “vecchie, incrostate”: quelle del potere sindacale.

Probabile ci sia anche dell’altro a questi livelli di scontro, ma di fatto Diess ha aperto un fronte sul modello di capitalismo renano in una doppia fase di transizione quale è l’attuale, tra Covid-19 e fine dell’era Merkel. E nel pieno di una crisi mondiale che ridà forza ovunque al ruolo del decisore politico.

Lo scontro è stellare se poi succede con il consiglio di fabbrica del gruppo Volkswagen, considerato il più potente di Germania. Alla cui guida è dal 2005 Bernd Osterloh, che rappresenta i lavoratori anche nel consiglio di sorveglianza (curiosità: ha moglie italiana e figli con doppia cittadinanza, la sua vice è un’altra italiana che vorrebbe imporre come erede).

Osterloh è una potenza ed è lì da una vita e quando un giornalista gli ha chiesto la settimana scorsa se è preoccupato per il cambiamento nel settore auto che costerà molti posti di lavoro, ha risposto: “Penso sia gestibile”.  Come dire, non è questo il mio problema con Diess.

Lo strappo del manager è qualcosa di perdonabile, quando in ballo ci sono decine di miliardi. O forse no, soprattutto se ci sono errori o ritenuti tali. Mettetevi nei panni dei poveri azionisti Volkswagen che prima o poi dovranno decidersi a decidere. Gli spettatori interessati non mancano. A cominciare dai costruttori rivali.

ps è il 14 sera, due notizie: la prima è che i tedeschi ormai lavorano anche dopo il tramonto, la seconda è che Diess ottiene tutto quello che voleva dal consiglio di sorveglianza tranne l’estensione del contratto. Voto all’unanimità, Osterloh compreso dunque. Significa che hanno vinto tutti o che nessuno ha perso, fate voi. E che il caso Diess è chiuso. Per adesso.

@fpatfpat

Commenti

    […] provato l’anno scorso di questi tempi ma senza farcela, consigliandomi comunque di scrivere qui su Carblogger il seguente titolo: “Il caso Diess non è chiuso”.  Né lo si poteva cacciare nel giorno del nuovo governo post Merkel a guida Spd (Olaf Scholz ha […]

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