Non condivido il giudizio di Francesco Paternò sulla natura americana di FCA espresso in questo post, anche se lo trovo non gratuito e apprezzabile per schiettezza, contrariamente a certe conversioni sulla “via di Marchionne”, talvolta misurate sul peso di Fiat nei giornali.

Ma veniamo al dunque. Perché Fiat non è americana? Perché questo caso aziendale non va analizzato inforcando solo gli occhiali del nazionalismo economico (tipico dell’automotive) o quelli del conflitto capitale/lavoro o ancora quelli che hanno fatto di Fiat un simbolo, positivo e negativo al tempo stesso, di italianità.

La vera domanda è: può nascere una forza da due debolezze? Questo Dna atipico è in realtà la forza di FCA. La diversità parte da chi la guida: un laureato in filosofia che veste come un regista e non un car-guy con pedigree ingegneristico. Ma, poi, si è vista mai un’azienda americana (per fatturato) o italiana (per capitale, Exor ha il 46% dei diritti sia pure per legge olandese) esporre anche la bandiera del Brasile a Wall Street  in occasione della quotazione? I simboli sono importanti. Quella bandiera dice che la spinta propulsiva dell’azienda sta nella sua capacità di riflettere il lato migliore della globalizzazione. E “diversità”  è una parola geneticamente affine alla cultura progressista e comunque segnala un’attitudine culturale “open”, non da multinazionale asettica, senza volto e con gli stivali da cow boy. Sergio Marchionne ha sintetizzato così a New York la “sua” FCA: “Siamo guidati dai valori di chi riconosce l’importanza delle differenze culturali”.

La diversità di FCA spiega anche il suo rapporto altalenante con i mercati. La bocciatura del piano presentato il 6 maggio è dovuta all’alto debito e ad una ambizione fuori scala, ma anche alla decisione di Marchionne di tenersi le fabbriche in Italia e a una visione culturale (“Il capitalismo delle tabelline non funziona”, sentenziò davanti agli analisti stupefatti a Detroit) fuori dagli schemi classici dell’automotive. Diversa FCA lo è persino nella forma-azienda: a-gerarchica. Tra Marchionne e l’operaio ci sono 6-7 livelli contro la ventina della Fiat vallettiana ma anche di Gm.

Un’azienda così “semplice” è veloce. Ma ha anche grandi difetti. Produce poca egemonia, ad esempio, anche se l’asse con Renzi potrebbe cambiare le cose. Non ha gli anticorpi che le avrebbero evitato battaglie perdenti come quella contro la Fiom. Cambia spesso tattica (vedi Fabbrica Italia) . E dipende troppo dal suo pivot. E infatti esiste la comunicazione di Marchionne (caso anche qui unico: non mediata da uomini-immagine!) mentre quella FCA è residuale.

E veniamo al capitolo più delicato: il rapporto con l’Italia. “Mamma Fiat”, il più classico dei “poteri forti” nostrani, il perno dell’odioso capitalismo nella sua italica versione “di relazione”, non c’è più.  Ma davvero FCA è un’entità estranea o addirittura un danno per noi italiani? Senza Chrysler sarebbe finita in uno spezzatino tedesco, ora ha un orizzonte strategico. Criticabilissimo. A patto di liberarsi da una logica che solo chi è italiano può capire: il dis-fiat-tismo .

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