“Al tempo della storia che racconterò, il nostro Paese aveva – e ha ancora – bisogno di grandi gruppi capaci di competere a livello mondiale e soprattutto di una presenza importante nei settori tecnologici più avanzati”. Sì, Roberto Colaninno, scomparso a 80 anni, aveva visione. E me ne convinco ancora di più rileggendo le sue parole – attualissime – nella prefazione del libro-intervista fatta con Rinaldo Gianola in “Primo tempo”, dieci anni di storia di capitalismo italiano fra Olivetti, Telecom e Piaggio da cui resta fuori l’avventura Alitalia (l’avevo fortemente criticata ai tempi in un editoriale), perché il libro è del 2006.
Cioè tre anni dopo l’acquisizione del 30% del gruppo di Pontedera da parte della sua Immsi, diventato nella sua gestione un solido attore internazionale della mobilità trainato da Vespa. Posizionata premium come Apple ha fatto con iPhone. Dopo di lui.
Colaninno va ricordato non solo perché sullo scenario della successione vaga un punto interrogativo. Certo, al suo fianco ci sono i figli Michele e più recentemente Matteo, ma la sua fama di forte accentratore non è di ieri. Siamo di fronte a uno degli ultimi esempi di capitalismo familiare italiano, quanto non provinciale (del pensatoio a Boston di Piaggio Fast Forward credo vada dato atto a Michele). Provincia sì, come raccontava qualche lustro fa con probabile falsa modestia al mitico Paul Betts del Financial Times: “You know, I am a very insignificant man in Mantua. I cook at home, ride my bicycle and lead a very ordinary life”.
Colaninno ha sempre dimostrato di avere visione e coraggio, in Piaggio da imprenditore e nella sua prima vita da dirigente e uomo di finanza. Breve memo: nato contabile in un’azienda di componentistica auto, da ad nominato da De Benedetti salva Olivetti trasformandola da azienda informatica sull’orlo del fallimento in un operatore tlc via Omnitel. Poi con “Project Riccio” mette insieme Chase Manhattan Bank e Mediobanca e altri soggetti finanziari per una scalata ostile di Telecom da 100.000 miliardi di lire nel 1999 (“ma lei ce li ha i soldi?”, gli chiede preoccupato il ministro del Tesoro Ciampi), mentre D’Alema presidente del consiglio battezza per sempre lui e compagni di strada “capitani coraggiosi”. Tra i politici che più ha ben frequentato Bersani, dopo un inizio per altro brusco.
Nell’agosto del 2001 i soci lo costringono a mollare, si cede tutto a una clamorosa offerta di Pirelli di Tronchetti Provera. Diventa ricco. Anzi molto ricco dopo l’11 settembre, quando il mondo crolla insieme alle Twin Towers. Prima dell’arrivo di Marchionne, allunga le mani sulla Fiat in profonda crisi ma lo bacchettano, stessa sorte il tentativo di far nascere il terzo polo tv con LA7 (verrà dopo di lui, ma aveva già cominciato assumendo Lerner, Ferrara e Fazio). Più tardi ad Alitalia, e andrà male.
In mezzo c’è la presa di Piaggio, 23 ottobre 2003. Di nuovo visione e coraggio, suoi tratti di stile (compreso indebitamento alto in ogni azienda guidata): la prima scelta strategica è sterzare in Asia. Investe in India, poi in Cina, poi in Vietnam, ora in Indonesia. La migliore smentita possibile per chi lo sospetta di gestire Piaggio in modo speculativo, pronto solo a vendere alla prima occasione. Pontedera (luogo che in realtà non ha mai amato, troppo sindacalizzata per i suoi gusti padronali) è oggi un gruppo con prospettive di medio-lungo termine.
Prendete l’ultimo bilancio di Colaninno: primo semestre 2023 da record, preceduto da altri record. Famosa è la sua attenzione ai costi e ai tagli e a quel che chiamava “produttività”. Però fatturato e utili salgono nonostante un aumento dei volumi del solo 1,2%. Significa che posizionamento, prezzi e mix di vendite (con le moto a crescere) sono lì dove dovrebbero sempre stare in una azienda sana. Per non dire dell’Aprilia che vince nel MotoGp, drive in cui ha creduto fin da quando alla Piaggio aggiunse il marchio di Noale. E Moto Guzzi? Salvata, con la sede storica di Mandello del Lario rifatta.
“Colaninno non poteva lasciare in un momento migliore“, mi dice un amico che lo ha frequentato. “Non ho bisogno di lavorare per soldi – rispondeva sempre a Betts con parole che oggi potrebbero suonare quasi da epitaffio – lavoro perché voglio fare qualcosa e mettermi alla prova. D’altronde, se non lavori diventi vecchio in un attimo”.