Di Ford Apache non ho il copyright. E’ il bellissimo titolo che un collega e amico scomparso troppo presto fece molti anni fa a un mio articolo, nobilitandolo oltremodo. Campeggiava in apertura di pagina di quotidiano, quando la carta era una magnifica prateria e aveva un gran peso specifico (e nonostante lo avessi firmato con uno pseudonimo per ragioni editoriali). Se non ricordo male, Ford Apache narrava dei disastri di Ford Europe sui quali l’allora ceo del gruppo Jac Nasser imperversava da Detroit, tagliando costi velocemente come usasse un coltello. Jac soprannominato “Jac the Knife”, Jac d’origini libanesi senza il “k” di Jack lo Squartatore.
Altri tempi, anche se i tempi duri per Ford in Europa non sono più finiti. E c’erano guai antichi se nel 1985 Ford pensò di fondere la sua divisione Europe con Fiat, salvo beccarsi un no last minute in un hotel a Long Island per aver chiesto il 51% della nuova società (la versione di Cesare Romiti).
Nel nuovo millennio, Ford ha messo mano ad almeno tre pesanti piani di ristrutturazione – 2012, 2016, 2019 e poi ancora negli ultimi due anni – con perdite e boss in Europa che sono cambiati come in una porta girevole. L’ultimo, Martin Sander, ha fatto un po’ più male all’immagine del marchio: il top manager era arrivato l’anno scorso dal gruppo Volkswagen e lì è tornato, chissà se soltanto per soldi e carriera (promosso a numero due delle vendite mondo del marchio Volkswagen), o se anche per qualcosa che ha visto e non l’ha convinto all’Ovale Blu. Ford e Volkswagen, per altro, si sono fidanzati ai tempi di Trump alla Casa Bianca (il presidente che odiava i tedeschi, “bad, very bad” li apostrofava quando ne sentiva parlare). Oggi che l’amore tra i due costruttori è già finito, ci resta solo il rischio di un ritorno di Trump.
Ford Apache, cinque anni fa mi domandai su questo blog se Ford stesse pensando di lasciare l’Europa, così come aveva fatto Gm nel 2017, le cui perdite miliardarie non erano comunque comparabili a quelle di Ford. Il mio telefono squillò più di una volta, ma dai, vedrai. Mi rimase il dubbio, stella polare di chi fa questo lavoro.
L’altro giorno a Lubiana ho incontrato gente di Ford Europe, invitato per la nuova Explorer, suv elettrico di media grandezza (quello originale americano ha superato i 5 metri) e soprattutto primo veicolo a zero emissioni concepito tutto in Europa, dopo la yankee Mustang Mach-E. L’Explorer d’Europa nasce a Colonia, la storica fabbrica voluta da Henry Ford quasi cent’anni fa, dove sono stato una volta per la Fiesta e a toccare con mano l’importanza di un accordo importante fra l’azienda e il potente sindacato tedesco IG Metall.
Ebbene, Ford Apache resiste, mi sono detto tornando a casa. Come accade nel film quasi omonimo di John Ford (i nomi contano). All’ennesimo “massacro” (dismissioni di Saarlouis dopo Bridgend nel Galles, licenziamenti, fine di Fiesta e Focus, modelli identitari e di volume compensati dal record di vendite dei commerciali perché il business si tenga in piedi), Ford ha trovato la forza di rilanciare in Europa e a scommetterci decisamente su.
A convincermi non è stato l’Explorer (pure ben fatto, ma i numeri di vendita non dipenderanno da questo), né l’ormai prossimo modello annunciato sulla stessa linea o l’arrivo di Puma elettrica, né la saggia decisione di posticipare produzione e vendita dal 2030 soltanto di modelli a zero emissioni sul Vecchio Continente. Ford Apache resta alle giacche azzurre perché a Detroit hanno deciso di investire 2 miliardi di euro sul rifacimento della fabbrica di Colonia, di sviluppare una nuova piattaforma multienergia nel sito spagnolo di Valencia, di spendere altri 380 milioni di sterline per aggiornare in ottica EV lo stabilimento di componentistica a Halewood nella perfida Albione della Brexit. Non si butterebbero tanti soldi così.
Bill Ford forse non diventerà il capitano York, ma non passerà alla storia d’Europa nemmeno per il colonnello Turner.