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Porsche è nei guai. Non sarebbe una gran notizia in questi tempi bui se non fosse che, per l’industria dell’auto, Porsche rappresenta un bel pezzo di storia. Con quella 911 ancora da ammirare dopo più di 60 anni, leggenda più che mito, macchina da tramandare oralmente aggiungendo qua e là qualche emozione, o fantasie altre.

Il 22 settembre Porsche esce dal Dax, l’indice di Borsa a Francoforte delle maggiori 40 aziende tedesche, perché il suo titolo è crollato, perdendo oltre un terzo del valore negli ultimi dodici mesi. Via dal blue-chip indice di riferimento, giù nel MDax, dove M sta per Medium. Per un marchio di auto sportive, è come se una 911 venisse sorpassata da una Skoda di famiglia. Questa storia mi ricorda certe malelingue americane alla fine degli anni 90, quando a Wall Street non volevano nemmeno sentir parlare di Porsche, a causa di una governance considerata opaca.

Oggi il caso Porsche ha dell’impensabile. Solo tre anni fa, il costruttore chiudeva trionfalmente una delle più importanti Ipo in quella Borsa da cui oggi è costretta a uscire e dove, ha promesso l’amministratore delegato Oliver Blume, intende rientrare al più presto. Non sarà comunque Blume a riaccompagnarla, perché gli azionisti del gruppo Volkswagen, che detiene il 75,4% di Porsche, si sono stufati del top manager che tiene il piede in due staffe. Facesse, e bene, soltanto l’amministratore delegato del gruppo e lasciasse il volante di Porsche a qualcun altro. I cacciatori di teste sono già al lavoro.

I guai del marchio hanno dimensioni globali e un retroterra strategico. Porsche è crollata in Cina, subendo l’anno scorso ben tre richiami e il sorpasso nell’immaginario di marchi locali come Xiaomi, più tech e più attraenti per i giovani affluenti cinesi. Negli Stati Uniti, i dazi trumpiani hanno fatto il resto. Il risultato è imbarazzante per un marchio simile: il margine operativo dovrebbe essere quest’anno del 2%, quarto ribasso nell’anno dopo previsioni già non rosee fra il 5 e il 7%.

Il retroterra strategico di Porsche è invece l’elettrico. Proprio alla vigilia del lancio della nuova Cayenne a zero emissioni, Porsche ha annunciato un cambiamento nella strategia di prodotto, che, in sintesi, prevede meno elettriche e più ibride e benzina almeno fino al 2030, se non oltre. Motivo ufficiale: l’elettrico non si vende come nei piani, soprattutto in quella Cina dove la Taycan, primo modello Bev del marchio lanciato nel 2019, è stata lasciata a piedi dai consumatori. La cosa più clamorosa della revisione annunciata ad analisti e media il 19 settembre scorso è, mio parere, ancora un’altra: la nuova piattaforma per modelli elettrici “sarà riprogrammata per il 2030”.

Per Porsche significa che saranno buttati soldi perché non sia più nativa Bev ma multi-energia. Cosa, per altro, che al partner americano all electric Rivian, con cui l’attuale è stata sviluppata, non interessa. Questo nuovo piano Porsche costerà al gruppo Volkswagen 5,1 miliardi di euro, dice Blume. Nel frattempo saranno licenziate 1.900 persone, il 15% della forza lavoro, si tratta con l’amministrazione Trump un inedito investimento produttivo negli Usa per sopravvivere al frontale con i dazi, si abbandona il progetto di una propria fabbrica di batterie, per domanda di elettriche in calo, insieme al nuovo Suv di punta, pensato Bev e per adesso non più.

Peccato, per un marchio dalla storia lungimirante. Meriterebbe clienti più smart. Ma non è tornando indietro che Porsche si salverà dall’autoritarismo trumpiano e sorpasserà di nuovo i cinesi, involati sulla strada dell’innovazione senza guardare più nemmeno negli specchietti retrovisori. Ferdinand Porsche, il fondatore del marchio che nel 1900 chiamò Semper Vivus la sua prima elettrica con trazione integrale e alimentazione ibrida, si starà rigirando nella tomba.

@fpatfpat

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