La storia di Porsche presto quotata a Francoforte in Borsa separatamente dal gruppo Volkswagen – nonostante i venti di guerra e di recessione – mi conferma il celebre incipit che Tolstoj scrisse per “Anna Karenina”: “Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo”. Porsche e Piech sono le famiglie felici dietro una operazione che potrebbe valere fino a 85 miliardi di euro, la più grande Ipo d’Europa, nella quale loro avranno il 25% più una azione e la maggioranza assoluta nei diritti di voto.
Porsche e Piech non sono mai state famiglie infelici, nemmeno a modo loro. Attraverso la holding Porsche SE controllano saldamente il gruppo Volkswagen e, con l’Ipo, mandano un messaggio urbi et orbi ancora più chiaro: noi restiamo sempre al volante. Capaci di trovare nuovi capitali freschi per far fronte innanzitutto al processo di elettrificazione.
Per sveltire l’operazione è stato cacciato il ceo del gruppo Diess, poco allineato a una governance complessa in cui c’è dentro anche il Land della Bassa Sassonia e un po’ più di una moral suasion del potente sindacato IG Metall, seduto nel consiglio di sorveglianza del gruppo secondo la cogestione del capitalismo renano. Al suo posto Blume, immagino più affidabile essendo già alla guida di Porsche, affiancato dal direttore finanziario e ora anche direttore generale del gruppo Volkswagen, Arno Antlitz. I due sono antichi compagni di merende: prima del 2010, nel brand Volkswagen erano rispettivamente capo del controllo prodotto globale e capo della pianificazione del prodotto globale.
Porsche e Piech sono famiglie felici, anche se in questa governance si rischia di non capire mai veramente dove può iniziare o dove può finire un conflitto d’interesse (Tolstoj scriverebbe: una relazione extraconiugale). Né mancano i fratelli coltelli. Nel 2005 il topolino (per dimensioni) Porsche provò addirittura a scalare l’elefante (idem) Volkswagen, ma la catastrofe finanziaria globale seguita alla crisi dei subprime americani costrinse il primo a rinunciare, era l’estate del 2009 (qui una bella timeline di Reuters).
All’epoca, un amico americano mi aveva raccontato che fin dagli anni ’90 Wall Street teneva alla larga Porsche da una possibile quotazione perché considerava opaca la sua governance. Ma proprio in quei giorni, un articolo uscito sul Journal of Molecular Evolution m’illuminò sul comportamento dei Porsche e dei Piech, pubblicando la scoperta secondo cui il topo e l’elefante sono parenti stretti. Stesso dna, ecco perché adesso con la Ipo sto sereno.
Giusto che Wall Street tema l’opacità. Loro le porcherie le fanno alla luce del sole.