Che guidare Stellantis nella tempesta non sarebbe stato facile per un amministratore delegato faticosamente nominato ben sei mesi dopo il predecessore, lo sapevamo. Che il nuovo ceo Antonio Filosa sarebbe partito da tagli verticali e non orizzontali lo sappiamo adesso. Che cosa farà prossimamente, ce lo ha anticipato a carte coperte alla presentazione dei sanguinosi risultati semestrali di Stellantis: “Continueremo a prendere decisioni difficili”.

Inevitabile, a fronte per Stellantis di ricavi netti giù del 13%, di perdite nette pari a 2,3 miliardi di euro, di un impatto sull’anno dei dazi trumpiani stimato a 1,5 miliardi, di una guidance finanziaria sospesa per il 2025, poi ristabilita promettendo miglioramenti. Altrettanto inevitabili quando si parte dall’orlo di un burrone e sempre che qualcuno non provi a buttarti giù, come per esempio ha fatto il fondo pensione Mercedes vendendo a sorpresa la sua quota di una Nissan assai inguaiata, pesante atto di sfiducia verso il nuovo ceo Ivan Espinosa.

A Stellantis, i tagli verticali di Filosa sono partiti dall’innovazione. E’ stata fermata la ricerca sull’idrogeno, perché “senza prospettive di sostenibilità economica a medio termine”, come recita un comunicato, stop per lo stesso motivo allo sviluppo della guida autonoma per un Livello 3, annunciato a febbraio scorso e non più arrivato sul mercato. Reuters ha scritto di “congelamento” del programma, senza essere smentita. Negli Stati Uniti, la produzione di Stellantis è stata invece adattata ai desideri negazionisti dell’emergenza climatica dell’amministrazione Trump: meno veicoli elettrici seguendo la cancellazione dei crediti di imposta federali dal 30 settembre, più motori V8 per Suv e pick-up, non modelli indicatori di futuro ma solo da margini alti.

Ora, non c’è da strapparsi i capelli se Stellantis rinuncia a idrogeno e guida autonoma, certamente non in cima ai pensieri quotidiani di chiunque di noi, ma il segnale è preoccupante. L’innovazione, che in questa industria fa a pugni con le trimestrali, è la nostra assicurazione sulla vita. Il mondo che conta oggi, piaccia o non piaccia – la Cina del tech, la Silicon Valley, le start up di intelligenza artificiale, i fondi di venture capital che spingono sulla sostenibilità ambientale – va nella direzione opposta. Se non si investe sulla ricerca, si resta indietro, fino a rischiare l’esclusione dal mercato.

Stellantis, prima di Filosa, ha per esempio fermato in Italia gli investimenti per la trasformazione della fabbrica di Termoli in un sito produttivo di batterie per veicoli elettrici. Dall’1 settembre, a Termoli non si lavorerà quasi più per un anno. Dipendenti in solidarietà, che non significa licenziamento ma vita sospesa. Non va meglio ai lavoratori di Pomigliano e a Mirafiori, e le nuvole sono più nere di quanto appaiano.

L’anno scorso, Stellantis ha preferito investire insieme al gigante cinese Catl fino a 4,1 miliardi su una fabbrica di batterie in Spagna, mentre con altri 1,2 miliardi ha appena deciso di trasformare lo stabilimento di Kenitra in Marocco nel suo più grande del mondo. Portando anche lì la piattaforma Smart Car, su cui è possibile che vengano prodotti i due prossimi suv compatti Fiat. Il Marocco è oggi il paese con il più basso costo del lavoro al mondo (studio Oliver Wyman): paradossalmente, con dazi trumpiani soltanto al 10%, converrebbe produrre qui anche modelli da esportare verso gli Usa, come le Alfa/Dodge fatte a Pomigliano.

Le prossime “decisioni difficili” di Stellantis? Non è un caso che contestualmente Filosa abbia sottolineato la sua urgenza di mantenere un “dialogo intenso con i responsabili politici”: nel disordine di casa Stellantis ci sono 14 marchi, diversi dei quali non funzionano bene. Presumibile che un giorno ne parli, in ordine d’importanza in relazione ai guai del gruppo, con Trump, Meloni e Macron.

Pur tenendo il comando di Stellantis ad Auburn Hills, Filosa non può contare su normali relazioni con un Trump sempre più autoritario e interventista negli affari degli altri: vedi l’assedio del presidente statunitense all’indipendenza della Fed, l’acquisizione pubblica di una quota di Intel in crisi, l’imposizione a Nvidia di dare al governo il 15% delle vendite di chip in Cina in cambio di semaforo verde o giallo all’export, la richiesta di dimissioni per il ceo di Goldman Sachs, critico della sua politica economica. Tornando a Stellantis, le quote di mercato americano di Chrysler e Dodge sono ben al di sotto dell’1%, marchi storici a rischio scomparsa: Trump permetterebbe a Filosa di chiuderli se desse seguito a “decisioni difficili”?

Meloni ha un conto aperto con Stellantis, o almeno finché il suo presidente John Elkann resterà proprietario di Repubblica. Le prossime regionali, una finanziaria complicata, una crescita da 0 virgola e i dazi del suo amico Trump (l’altro è Netanyahu, a indelebile memoria) potrebbero peggiorare il cattivo umore della premier nei confronti del gruppo automobilistico. Maserati è piuttosto malmessa, Lancia e DS hanno una quota di mercato in Europa dello 0,1 e dello 0,2%, Abarth varrebbe un allestimento: fra le “decisioni difficili” di Filosa c’è la vendita o la chiusura di questi marchi? (Sergio Marchionne lo aveva già deciso per Lancia, senza suscitare chiamate alle armi).

Stellantis non è Apple, ma credo che il nostro ingegnere napoletano sia alle prese con lo stesso chiodo fisso di Steve Jobs: “Deciding what not to do is as important as deciding what to do”. Decidere cosa non fare è importante quanto decidere cosa fare.

@fpatfpat

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