Elon Musk rischia la pelle nello scontro con Donald Trump, scrive con non troppa convinzione la grande stampa americana. Alcuni dei suoi in posizione top lo stanno abbandonando, da Tesla a X, buon motivo per andare a sbirciare il suo manuale di sopravvivenza. Per chi fa informazione, il bello fra i due deve ancora arrivare, anche perché, mi suggerisce Adam Roberts, direttore dell’edizione digitale dell’Economist, “chi ha intenzione di colonizzare Marte non è certo un tipo timido e riservato” (humor all’inglese, mai dimenticare con chi si ha a che fare).

Musk non è Taco come Trump, ho già scommesso qui su Carblogger. E non è un pentito per avere sostenuto il presidente in campagna elettorale e aver lavorato per lui al Doge, licenziando e tagliando fondi di sostegno ai paesi più poveri. Musk si è solo dissociato da Trump. Credo rifarebbe colpevolmente tutto, salvo forse dargli 250 milioni di contributi elettorali. Nel 2016, Peter Thiel, vera testa pensante dei tecnopolitici trumpiani della Silicon Valley, se la cavò con una donazione da 1,25 milioni di dollari (oggi la sua Palantir, big data & AI, ha contratti a molti zeri con l’amministrazione Trump, al Pentagono in particolare).

Non c’era bisogno di sapere da Musk che la trimestrale di Tesla non sarebbe stata beautiful, con margini e ricavi giù e fatturato deludente. Per vendite di elettriche in calo a maggio e aprile negli Usa (suo primo mercato per fatturato), vendite col coltello tra i denti per guerra dei prezzi in Cina (suo primo mercato per produzione ed export), vendite macchiate e ristrette dal suo endorsement all’estrema destra in Europa (suo primo mercato per declino da effetti politici). Meno male per Musk che Space X tira:  per Trump non sarà facile cancellare con un tratto del solito pennarello nero i contratti della Nasa, ha rivelato il Wall Street Journal (il primo di questi contratti, da 1,6 miliardi nel dicembre 2008, servì a salvare in qualche modo Tesla sull’orlo della bancarotta).

Musk non ha rotto con Trump per la fine dei 7.500 dollari di crediti fiscali agli acquirenti di auto elettriche, cosa che sapeva bene fin dalla convention repubblicana di Milwaukee del luglio 2024 in cui i due celebrarono il loro matrimonio di interessi. Musk punta sulla deregulation per la guida autonoma che l’Amministrazione porta avanti non per Tesla, ma per tutti. E’ il problema che ha adesso in Cina, dove gli hanno fatto capire che la rottura con Trump lo rende politicamente meno utile e infatti l’approvazione definitiva per il suo FSD può attendere, mentre i rivali locali sorpassano. Musk ha sterzato ormai sull’automazione (robot umanoidi compresi come Optimus) perché lì sta il vero business, grazie al motore inarrestabile dell’intelligenza artificiale che sviluppa fra xAI e Grok (il margine operativo della Tesla, leggo in una ricerca del sito finanziario BestBrokers sulle “Magnificent 7”, è dell’8,76%, contro il 59,86 di Nvidia, tanto per capire meglio di che si parla).

Musk ha rotto con Trump perché è stato messo da parte, suscitando l’ira di io. Così ha risposto attaccando la gestione dell’economia con il pretesto della legge di bilancio e il caso Epstein. Con i dazi, Trump porterà più soldi a casa. Le previsioni dicono però che quei soldi non basteranno a finanziare i tagli fiscali a favore di imprese e benestanti e a compensare un rallentamento della crescita, l’aumento dei prezzi e dell’inflazione. Ecco perché, nel suo manuale di sopravvivenza, Musk ha segnato in rosso le elezioni di midterm, novembre 2026, occasione per una resa dei conti cui deve però arrivare vivo (il lancio di American Party, il partito personale che starebbe suscitando attrazione anche all’estero, è stato solo messo in sonno, perché un anno politicamente è una eternità).

L’obiettivo di questo terzo polo non è sfidare (a perdere) la storia americana del bipartitismo con un eventuale terzo candidato alla Ross Perot, ma sottrarre voti ai Repubblicani per il Senato nei cosiddetti stati chiave oscillanti. A quel punto, un Trump anatra zoppa e colpevole di avere indebolito l’economia (l’accusa già la si legge nel frontale con Rupert Murdoch e il Wall Street Journal) potrebbe spingere l’establishment ad espellere quel corpo estraneo (succede a chi mette in pericolo il sistema di potere dal suo interno, la storia anche italiana insegna).

Musk, esponente principe del cosiddetto Big Tech americano, può difendere il suo impero sabotando, non andando in campo aperto contro un presidente degli Stati Uniti. Basta utilizzare a modo suo le regole dell’attuale democrazia, e magari smontarla. Avverte la politologa francese Asma Mhalla nel libro “Tecnopolitica”: “Le Big Tech sono innanzitutto attori-sistema, instabili, volatili e al contempo strutturali, che ‘sistemicamente’ contribuiscono a condizionare le strutture di potere contemporanee di cui ancora fatichiamo a valutare la portata endemica” (senza dimenticare che i due sono convinti di agire in un mondo in cui, sopra e sotto di loro, non c’è nessun altro).

@fpatfpat

Lascia un commento