Alfa Romeo e non più Fiat. E’ il logo del Biscione e non più quello della Fabbrica Italiana Automobili Torino a spiccare sulla carrozzeria della nuova Ferrari da Formula Uno, la SF15-T. Potenza del marketing, non c’è dubbio: non può esserci vettore migliore della Ferrari e della Formula Uno per il lancio della nuova era dell’Alfa Romeo che, a partire dal prossimo 24 giugno e fino a tutto il 2018, prevede di sfornare 8 nuovi modelli assorbendo ben 5 miliardi di investimenti dei 48 previsti dal piano quinquennale presentato a maggio.
E tuttavia questa ennesima rottura da parte di Sergio Marchionne di una delle “tradizioni” comunicative del Lingotto non è solo commerciale e iconografica, perché vi si possono leggere molti risvolti “culturali” e industriali del “caso FCA”. A dirla tutta, il logo dell’Alfa sulla Ferrari è un segnale forte della mutazione del DNA stesso dell’auto italiana. Non è cosa da poco. In un certo senso, attraverso questo passaggio in apparenza minore si certifica l’addio all’egemonia decennale dell’utilitaria a favore di un’idea d’automobile più sofisticata, frutto di un sistema industriale concepito per produrre un maggior valore aggiunto da raccogliere nel mondo e non più solo in Europa (e in Sud America).
L’abbinamento del marchio Fiat con la Formula Uno Ferrari, al di là dell’inefficacia commerciale dell’operazione, era figlio di un’epoca finita. Come l’ex manager del Lingotto Riccardo Ruggeri ci ha insegnato nei suoi libri, in particolare Una storia operaia (Brioschi Editore), l’idea di utilitaria “semplice, robusta e gentile” declinata fin dagli Anni Trenta dal genio dell’ingegner Dante Giacosa è stata sempre la bandiera dell’auto “made in Italy” in Europa e poi anche in Sud America. Ma poi la lunga “fase della viltà”, come Ruggeri definisce gli anni dal 1980 al 1995 nei quali il gruppo dirigente Fiat ebbe le carte per affrontare la crisi del gruppo ma non lo fece, ha posto le basi per il lento ma inesorabile declino del marchio torinese nel Vecchio Continente. Non da oggi il marchio Fiat vende più in Sud America che in Europa, dove Marchionne lo sta riposizionando intorno al sottobrand “500”, molto gradito ai consumatori, condendola con una spruzzata di praticità garantita della Panda.
Ma la molla che assegna all’Alfa Romeo il testimone dell’auto “made in Italy” nel mondo deriva dal nuovo modello di business industriale impostato da Marchionne. Secondo il manager italo-canadese in Europa è ormai quasi impossibile raccogliere utili producendo utilitarie distribuite attraverso catene commerciali “generaliste”. Lo dimostrano oltre che i bilanci di Fiat Emea anche le perdite massicce e pluriennali di Opel, Ford Europe, Psa e persino la risicatezza (2%) dei margini del marchio (non del gruppo) Volkswagen.
Per ottenere un ritorno sui miliardi di euro assorbiti da ogni nuovo prodotto automobilistico secondo Marchionne non resta dunque che il canale “premium”. Del resto l’industria dell’auto italiana (seguendo la strada che gran parte della componentistica ha già fatto rifornendo i costruttori tedeschi) sta già sperimentando il passaggio a prodotti ad alto valore aggiunto nelle fabbriche di Grugliasco (Maserati Ghibli e Quattroporte), Melfi (Jeep Renegade e 500X) e VM (motori diesel 3.000 V6).
Poi c’è un discorso di codici culturali imposti dalla globalizzazione: l’immagine grintosa e tecnicamente sofisticata dell’Alfa Romeo, che ha resistito ai lunghi anni dell’appannamento sotto la gestione Fiat, Marchionne compreso, collima per molti versi con quella dose di raffinatezza e unicità che spesso il “made in Italy” si è ritagliato nel mondo. Del resto con ogni probabilità il primo mercato delle Alfa future sarà quello Usa e non l’Italia. Decisamente non è un caso che lo sbarco del logo Alfa sulla carrozzeria dell’SF15-T avvenga nell’era Fiat Chrysler. Che non è più Fiat.