Fiat Chrysler Automobiles ha un’istituzione italiana fra i suoi “tifosi”: l’Istat. L’altro giorno l’Istituto di statistica ha raggelato le speranze di ripresa spiattellando un inaspettato -0,7% per la produzione industriale di gennaio. Ma per lo stesso mese ha fornito un dato in controtendenza: produzione di auto in crescita del 35,9%. Un errore? Qualcuno lo ha anche scritto sui social e l’incredulità è comprensibile in un paese dove da anni si discute dell’addio della Fiat.

Quel +35,9% dunque merita un supplemento d’attenzione. Intanto va detto che non è un fulmine a ciel sereno. A dicembre l’Istat segnalava una crescita della produzione d’auto del 30,4% e un aumento annuale del 9%. Segno più anche per l’Anfia (l’associazione della filiera auto italiana) secondo cui l’anno scorso l’Italia ha prodotto 401.000 vetture e 228 mila furgoni per un totale di 629.000 pezzi contro i 595.000 del 2013.

Poca roba. Ma se l’Italia produce pochissime auto, meno dell’Iran, è altrettanto vero che crescite mensili ripetute del 30% e spiccioli segnalano qualcosa di più di una semplice inversione di tendenza. Infatti l’Istat – sempre lui – nei suoi numeri non registra solo il numero delle vetture prodotte ma anche il loro valore e dunque l’Istituto di statistica sta fotografando un evento molto simile a quelli accaduti solo nei due dopoguerra del secolo scorso: un salto di qualità del modello produttivo di Fiat.

Prima con l’impennata della produzione di Maserati nella fabbrica di Grugliasco (passata dalle 15.000 vetture del 2013 alle 36.000 del 2014) e ora con l’avvio a Melfi dell’assemblaggio di Jeep Renegade e Fiat 500X, le fabbriche Fiat si stanno riposizionando verso produzioni non solo ad alto valore aggiunto ma destinate a tutto il mondo e non più solo all’Europa. Un confronto numerico dà l’idea della trasformazione: le “poche” Maserati di Grugliasco (88.000 euro l’una di media) hanno assicurato a FCA un fatturato di quasi 2,5 miliardi contro il miliardo e mezzo circa assicurato dalle 161.000 Panda assemblate a Pomigliano.

Come accade in Germania o Giappone, la progettazione di auto più complesse e costose e una rete commerciale globale possono essere sostenute solo da fabbriche ad alta produttività, “inedite” nell’esperienza italiana. In attesa del ritorno in campo di Mirafiori con i suoi 30 ettari di capannoni in ristrutturazione, da lunedì 16 marzo Melfi sarà la prima fabbrica d’auto europea a ciclo continuo: all’opera 7 giorni su 7 (tranne domenica mattina) su quattro squadre di operai che lavoreranno in media 40 ore a settimana ma su turni variabili fra i 4 e i 6 giorni a settimana.

Melfi dovrebbe consentire all’Italia di salire già da quest’anno a quota 800.000 autoveicoli. Mentre appare probabile che fra il 2017 e il 2018, con l’arrivo delle Alfa Romeo a Cassino, si torni non solo a superare il traguardo del milione annuo di vetture “made in Italy”  ma soprattutto a raggiungere un valore complessivo della produzione imparagonabile a quello attuale.

Ma i riposizionamenti sono operazioni di marketing fra le più difficili. Non a caso venerdì scorso è arrivata la notizia di un rallentamento della marcia trionfale della Maserati che almeno fino all’estate non saranno più prodotte di sabato mentre 500 dipendenti dello stabilimento di Grugliasco tornano alla cassa integrazione a rotazione. Sarà il tempo a stabilire se si tratta di un rallentamento fisiologico dei piani d’espansione o del segnale della ritirata strategica.

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