L’auto non è mai un buon investimento. I piccoli azionisti  o perdono soldi seguendo i precipizi della borsa, o devono adeguarsi rapidamente alle scelte degli azionisti di riferimento, come gli Agnelli-Elkann, i Ford, i Peugeot, i Quandt, i Piech-Porsche. L’ultimo caso Volkswagen è la più clamorosa delle conferme. Ferdinand Piech, nipote di quel Ferdinand Porsche  che inventò il Maggiolino, ha fatto del gruppo un impero mondiale, mettendolo sulla buona strada per diventare il numero uno entro il 2018. Finché a Wolfsburg va così, con bilanci in utile e dividendi per tutti,  Piech fa rudemente quello che vuole. L’ultima è la richiesta di fare entrare nel consiglio di sorveglianza, massimo organo istituzionale, la moglie Ursula, 74 anni. Non ho elementi per escludere che la signora sia la migliore dei manager possibili, ma è chiaro che la mossa di Piech serve a perpetuare  il controllo familiare sull’impero. Non altro. “Non è esattamente un’azienda guidata per gli azionisti”, ironizza sul Wall Street Journal Europe Ferdinand Dudenhoffer, un analista dell’università di Duisburg-Essen. E non è nemmeno la fine del maschilismo imperante ai vertici del mondo dell’auto, dove le donne si fermano sempre ai gradini più bassi del management (con qualche eccezione soltanto alla Gm).  Piech si fa beffa di tutti grazie anche a un antico legame con il sindacato, presente nel gruppo per una cogestione secondo le regole del capitalismo renano. La signora Ursula entrerà soltanto (pare) con il sì del sindacato? Il gruppo ha annunciato 7.500 euro di bonus per i lavoratori, dopo un’annata eccezionale. Oltre che 11 milioni di bonus per Martin Winterkorn, l’amministratore delegato, uomo di Piech e sotto Piech.

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