Per capire come è andato davvero l’incontro di due ore a palazzo Chigi fra governo e vertici Fiat e poi allargato agli enti locali piemontesi, bisogna partire dalle parole pronunciate al termine dal ministro del lavoro Maurizio Sacconi: «Il futuro della Fiat e il suo sviluppo sono condizionati dalla governabilità degli stabilimenti. Abbiamo concordato che sono necessarie relazioni industriali costruttive per la piena utilizzazione degli impianti e il ritorno degli investimenti. Dire che il costo del lavoro vale solo il 7% è una grande stronzata, perché è strettamente legato al grado di utilizzazione degli impianti». Sacconi per una volta è limpido: la Fiat ci conferma che vuole investire in Italia e lasciare la testa del gruppo a Torino, ma se i lavoratori e la Fiom che non hanno firmato gli accordi di Mirafiori e di Pomigliano mettono i bastoni fra le ruote, Sergio Marchionne potrebbe ritenersi libero da impegni. E dunque di portare tutto in America, come ha ipotizzato la settimana scorsa a San Francisco e come ipotizza nel piano quinquennale del 21 aprile scorso, dove si prefigura Chrysler come senior partner del futuro unico gruppo.
Rassicurante per chi lo desidera, ognuno ha fatto la sua parte, dando soddisfazione all’altro. Marchionne e il presidente John Elkann hanno risposto alla squadra di governo (Silvio Berlusconi, Giulio Tremonti, Paolo Romani, Gianni Letta e Maurizio Sacconi) quel che volevano sentirsi dire: investimenti per 20 miliardi confermati, di decisione sul futuro del gruppo «se ne parlerà» nel 2014. Ma non sarebbe bizzarro, per qualsiasi manager, parlarne nel 2014, se a metà 2012 c’è già stato il ritorno in borsa di Chrysler, il suo controllo alla Fiat con il 51% e una fusione completata? «La Fiat rimane con il cuore italiano» e «non andrà a Detroit», parola di Romani e Sacconi. Il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, molto esposto per il suo sì a Marchionne e per il ni del suo partito, il Pd, ha parlato di «passo avanti» per la conferma degli investimenti di 20 miliardi di euro da parte Fiat e dell’obiettivo di portare la produzione di veicoli in Italia a 1,4 milioni di unità entro il 2014. Due cose, a dire il vero, finora mai smentite da Marchionne. Stefano Fassina, responsabile lavoro del Pd, ha comunque fatto sapere che martedì nell’audizione di Marchionne prevista in comissione a Montecitorio, si faranno al manager «le domande che il governo non ha voluto e saputo fare». Stoccata che vale anche per Chiamparino, evidentemente. Entrando a palazzo Chigi, il sindaco ci aveva preannunciato anche che avrebbe chiesto al governo di rifinanziare l’accordo decennale per la ricerca Fiat-Politecnico, un modo per provare a radicare l’azienda sul territorio. Ha ricevuto, ci risulta dai partecipanti all’incontro, il silenzio tombale di Tremonti.
Il vertice non è stato una passarella, come la Cgil temeva. La Fiat non l’ha voluta, mettendola subito giù dura sulla questione della governabilità delle fabbriche e chiedendo al governo un sì in cambio di un arrivederci al 2014 pronunciato da Marchionne. L’unico rischio per l’amministratore delegato era che Berlusconi lo prendesse sotto braccio e lo portasse in conferenza stampa. Ma i tempi cambiano, chi siede oggi al Lingotto ha altro per la testa e il presidente del consiglio ha così grossi guai che consigliano di non apparire. Uno svelto comunicato scritto per la stampa, Marchionne ed Elkann fuori dalla porta di servizio, Sacconi e Romani spediti a dire che tutto è a posto e niente in ordine.

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