Si riferiva proprio a Berlusconi (se non anche a Tremonti) l’amministratore delegato della Fiat-Chrysler Marchionne, quando mercoledì sera ora italiana diceva a un collega dell’Ansa che “in altri paesi chi ha compiuto anche scorrettezze nella vita quotidiana sarebbe stato costretto a dimettersi immediatamente”.  La correzione di rotta del suo pur attento portavoce, costretto a un superlavoro dopo che aveva già definito una “battuta scherzosa” il probabile annunciato addio del Capo nel 2015 o nel 2016, ha lasciato il tempo che trova, nella cronache dei giornali e nella storia personale del manager. Che da sempre mi risulta essere un vero antiberlusconiano, non da sinistra ma per la sua cultura politica liberal in senso anglosassone.  Tra i due non c’è mai stato un rapporto diretto, cosa che invece è avvenuta quando a palazzo Chigi stava Prodi.  Nel marzo del 2006, a Vicenza, un Marchionne più che esterrefatto si lascia immortalare dalle tv mentre Berlusconi fa uno violento show contro della Della Valle  davanti a una platea confindustriale.  Al di là di qualsiasi smentita, sul capo del governo il manager Fiat non la pensa poi così diversamente dai conservatori tedeschi e inglesi o dai gollisti francesi, che considerano Berlusconi un’anomalia della destra politica europea.

 L’antiberlusconismo di Marchionne ha basi culturali e, volendo, anche sostanziali: la maggioranza Pdl-Lega è storicamente anti-Fiat e non ha mai concesso nulla al Lingotto dal 2001 a oggi, eccezion fatta solo alla voce incentivi per il metano, ai tempi della rottamazione auto (provvedimento di cui complessivamente hanno beneficiato tutti, così come tutte le aziende operanti nel paese beneficiano degli ammortizzatori sociali).  Quando Marchionne chiede una “leadership più forte che ridia credibilità al paese” continua soltanto a fare il suo mestiere di manager – la sacralità della leadership, innanzitutto –  altro che piano segreto d’intesa con l’opposizione (che è molto meno efficace di lui nella critica al governo) o con la Confindustria (da cui vuole uscire). Il capo Fiat sa poi che i grandi affari nell’era globalizzata si fanno anche insieme al sistema-paese: lui ha trattato da solo con l’amministrazione Obama per la Chrysler, ma se alle sue spalle ci fosse stato un governo che conta, probabilmente in Cina la Fiat  oggi starebbe messa meno peggio di quanto è, forse in Germania sarebbe andata diversamente per la Opel. Infine, invocando Napolitano e un cambio di stagione politica, Marchionne difende anche i suoi soldi. La borsa di Milano continua a massacrare il titolo Fiat da giorni, oggi -10,03% quanto i titoli bancari (i più colpiti in assoluto), perché la speculazione agisce con più facilità lì dove la politica è debole o assente.  Marchionne ha già i suoi guai sul mercato dell’auto in Europa dove perde, perché dover sopportare pure Berlusconi che a ogni parola fa altri danni?

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