Se Silvio Berlusconi sostiene che Standard&Poor’s  declassa l’Italia e il suo governo perché all’agenzia leggono troppo i giornali italiani, Sergio Marchionne potrebbe essere tentato di dare la colpa del declassamento della sua Fiat da parte di Moody’s alla solita Fiom. Il rating è di oggi: da Ba1 a Ba2, e soprattutto con outlook negativo, cioè a rischio nuova revisione. Ma se Berlusconi ormai è uno zombie politico, perché Moody’s spara a zero su Marchionne nonostante solo ventiquattr’ore prima il manager abbia confermato gli obiettivi 2011 e l’ulteriore scalata della Chrysler al 58,5% entro l’anno? Perché l’agenzia di rating, per altro pessimo pulpito insieme alle altre due sorelle americane, non può non vedere due ostacoli grandi come montagne sulla strada di Marchionne: 1) l’alto indebitamento della Chrysler (“l’affidabilità creditizia di Fiat e di Chrysler saranno sempre più allineate” e i due gruppi “potrebbero dover sostenersi l’un l’altro in caso di difficoltà finanziarie”, scrivono gli analisti; 2) il piano prodotto del Lingotto (“il rischio del business di Fiat, concentrato su un settore altamente ciclico come quello automobilistico, e il tasso di rinnovo dei modelli relativamente basso rispetto ai concorrenti diretti” che “riduce la sua posizione competitiva”, annota ancora Moody’s).

Proviamo a tradurre: è vero che Marchionne ha spettacolarmente ripagato in anticipo i prestiti dei governi statunitense e canadese del 2009, ma lo ha fatto indebitandosi di nuovo a tassi migliori (8% comunque) con le banche americane e non certo con soldi derivati dall’attività industriale. E’d è altrettanto vero che Marchionne ha ritardato l’uscita di diversi nuovi modelli Fiat, Lancia e Alfa Romeo aspettando – motivazione ufficiale – che i mercati si riprendessero (ma oggi la situazione si sta facendo più nera), con il risultato che quote e vendite del gruppo  sono andati giù.  La agenzie di rating restanopoco credibili e complici della finanza per la grande crisi del 2008, ma a forza di sbagliare ogni tanto potrebbero prenderci. Almeno – e purtroppo – per le cose d’Italia.

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