Bob Lutz è tornato. 80 anni il prossimo 12 febbraio, Robert Anthony “Bob” Lutz non è mai andato via davvero. Viene anzi il sospetto che forse non se ne andrà mai, come quegli highlander celebrati in un fortunato film, destinati a combattere nei secoli con gli spadoni per la loro immortalità. Le spade di Lutz sono le sue amate automobili, con cui ha cominciato da bambino, “giocavo con i modellini e nient’altro”, senza smettere più. Il 5 settembre scorso, al veterano di Detroit, il car guy per eccellenza, la Gm ha rifatto un contratto di consulenza, data di scadenza non pervenuta. Il suo primo contratto con il gigante americano risale al settembre del 1963, il più clamoroso è del settembre 2001 quando viene richiamato in servizio attivo a 69 anni al posto di Tom Davis, altro veterano con 37 anni di Gm alle spalle. Oggi, è il suo terzo ritorno.

Settembre è il mese del ripensamento, cantava un nostro poeta, e così deve essere stato per le relazioni fra la Gm e Bob Lutz. Nella sua vita per l’automobile, lui è stato tutto e il suo contrario, bianco e nero, acqua e fuoco con un’unica passione e un solo difficile temperamento. Pilota di caccia del corpo dei Marines, collezionista di auto e moto, proprietario di aerei ed elicotteri, Lutz ha firmato auto leggendarie come la Chevrolet Camaro e meno leggendarie come la Ford Sierra e la Chrysler PT Cruiser. Ma come per gli highlander cinematografici, per conoscere il suo passato è meglio partire dal presente.

Alla Gm, oggi torna dalla porta girevole da cui era uscito, recalcitrante, nel maggio del 2010. Il costruttore finisce in bancarotta pilotata (dall’amministrazione Obama) nel giugno del 2009, dopo aver perduto circa 80 miliardi di dollari negli ultimi tre anni. Lutz ha la sua enorme dose di responsabilità, perché dall’1 settembre 2001 è vice presidente con delega allo sviluppo del prodotto. In quell’anno, lo chiama l’amministratore delegato Rick Wagoner, che pensa a lui per una consulenza e si sente chiedere il posto guida, altrimenti non se ne fa nulla. “E’ l’occasione della vita – dice Lutz ringraziando Wagoner – perché c’è l’opportunità di aiutare a ricostruire non un’icona americana, ma un’icona mondiale”. Le cose andranno in altro modo, anche perché il car guy mal si adatta ai tempi che cambiano. Solo nel 2008 ammette a denti stretti che “l’elettrificazione dell’auto è inevitabile”, veleno per uno che vive di cilindri, e almeno otto. L’1 aprile del 2009 è la data in cui dovrebbe lasciare, in forte polemica con i politici di Washington che, a suo dire, impongono legislazioni troppo restrittive sull’ambiente, costringendo i produttori a fare automobili meno attraenti per i consumatori. Lutz sbraita ma non molla, è pesce d’aprile: resterà un altro anno, imperversando fino all’ultimo minuto. Nell’ottobre del 2009, per esempio, firma un blog sul sito della Gm, “Fastlane”, l’ennesima sfida ai giornalisti. Dà appuntamento al Monticello Motor Club, vicino New York, per un “duello su pista” con la “sua” Cadillac CTS-V, perché – insiste – è la berlina più veloce che ci sia. Il post resterà a lungo tra i “most popular”.

Lutz è un anti-ambientalista dichiarato, definisce il riscaldamento globale a “crock of shit” (letteralmente una “cagata”), eppure, con grande sorpresa, è lui il protagonista del documentario “Revenge of the electric car” presentato al Tribeca Film Festival a New York, nell’aprile scorso. Il regista è Chris Paine, lo stesso che nel 2006 girò “Who killed the electric car”, crocefiggendo proprio la Gm per avere abbandonato negli anni ’90 il progetto di auto a batterie EV1. Al Tribeca, Paine racconta invece come l’auto elettrica sia diventata finalmente una realtà e affida la narrazione, oltre che a Lutz, a Carlos Ghosn, presidente di Renault-Nissan (il gruppo più avanti nel settore) e a Elon Musk, amministratore delegato di Tesla, produttore californiano di modelli sportivi con motori a emissioni zero (grazie all’aiuto finanziario dell’amministrazione Obama). Davanti alle telecamere di Paine, Lutz esibisce il nuovo credo della Gm, la Chevrolet Volt, elettrica con autonomia estesa, la prima del gruppo. E’ un po’ sua, in effetti: che sia questa la “revenge”, la vera vendetta nei confronti di Lutz? Il manager dice di crederci dal 2005, quando discutendo con un altro top manager della Gm, John Lauckner, viene fuori l’idea della Volt. Questo almeno sostiene nel suo recentissimo libro, niente ghost writer e tutto emozionalità: “Car Guys vs Bean Counters: The Battle for the Soul of American Business”. Lutz ce l’ha con i giapponesi, in particolare con la Toyota, con la Prius sopravvalutata (sempre a suo dire), e con i giornalisti, “la stampa era vista come un nemico”. L’inedita Chevy è la risposta di Gm a Toyota, almeno nei rapporti con i consumatori: “In termini di cambiamento della pubblica percezione – scrive Lutz – la Volt era, è ancora, enormemente importante”.

L’eredità di Lutz è in questa macchina? Difficile crederlo, per uno che andava in ufficio in elicottero, ma la realtà a volte può superare la fantasia. Nel libro non c’è traccia di nessun abiura, piuttosto un inno al mito americano di Detroit e al ritorno sulla scena delle tre Big, con affermazioni tipo “la Chrysler è solidamente sulla via giusta” o “guardando alle auto medie, è difficile oggi non comprare auto americane”. Merito, ovviamente, di gente come lui, di creativi che usano il lato destro del cervello, contro i “contatori di fagioli” che usano il lato sinistro per produrre auto banali. Lutz mantiene la stessa vis polemica usata nel suo altro libro del 1998 (e poi rivisto nel 2003), “Guts: The Seven Laws of Business That Made Chrysler the World’s Hottest Car Company”. Qui l’ex marine incide per sempre suoi personali parametri, tipo “il cliente non ha sempre ragione”, “troppa qualità può rovinarti”, “i controlli finanziari non vanno bene”. Più che un’eresia, sostiene argomenti che probabilmente molti suoi colleghi condividono in privato, ma che non hanno il coraggio di dire in pubblico.

Sempre in quel 1998, vende insieme al suo capo Bob Eaton la Chrysler alla Daimler per 38 miliardi di dollari, facendo l’affare personale della vita in bonus e azioni. Nel decennio precedente, insieme a Lee Iacocca, Lutz aveva salvato dal baratro il più piccolo dei costruttori di Detroit, ma il volante era poi stato dato a Eaton e non a lui. Ecco, per dirla tutta, l’altro grande limite di Lutz (oltre all’insensibilità ambientalista) è non essere mai diventato il numero uno, nonostante abbia diretto Ford Europe e sia stato vicepresidente a Detroit, lavorato ad alto livello in Bmw (nato a Zurigo, parla tedesco, francese e un po’ di italiano) e in varie alte posizioni in Gm oltre che in Chrysler. Non gli è bastato conoscere il prodotto come pochi altri e saper combattere come nessun altro. La verità è che il suo è stato un altro film rispetto a quello degli highlander, attesi almeno dal Giorno della Ricompensa.

(tratto da InterAutoNews-Data Book 1° semestre 2011)

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