Sul mercato se le danno di santa ragione, ma in pubblico si comportano come i tre moschettieri. Dan Akerson, ceo di Gm, ha incassato a denti stretti il congelamento del suo stipendio deciso dall’amministrazione Obama per tutti i top manager delle grandi aziende che hanno ricevuto pubblici finanziamenti agevolati durante la crisi del 2009 e che ancora non hanno restituito tutto. Ma parlando di Alan Mulally, capo della Ford, e di Sergio Marchionne, capo di Chrysler, Akerson dice al Detroit News che entrambi guadagnano il giusto, avendo fatto “un grande lavoro”, “Alan ha salvato l’azienda, Sergio ha resuscitato la sua”.  Dan, congelamento a parte, nel 2011 ha incassato comunque 9 milioni di dollari, a fronte dei 29,5 milioni tra stipendio azioni e bonus di Alan e dei 22 milioni in dollari di Sergio da Fiat spa e Fiat industrial ma non da Chrysler, per la quale ha lavorato gratis come da impegni con il Tesoro Usa per il salvataggio del 2009. Rispetto a Dan, Alan ha però messo in sicurezza la Ford senza aiuti pubblici e Sergio ha restituito in anticipo i prestiti statali. Sui 12,5 miliardi serviti per l’operazione di bailout di Auburn Hills, l’amministrazione federale calcola di aver perso 1,3 miliardi. E il capo di Fiat-Chrysler nel 2012 dovrebbe darsi comunque una busta paga a stelle e a strisce.

Akerson, Mulally e Marchionne guidano l’America dell’auto nell’anno della campagna elettorale e, forse per la prima volta, potrebbero essere proprio i tre Big di Detroit i maggiori sostenitori di un presidente democratico. Anche contro le personali convinzioni politiche; dei tre, solo Marchionne si può considerare vicino a Barack Obama. Nell’economia statunitense, i veicoli circolanti sono oltre 250 milioni, generano tasse per 135 miliardi di dollari all’anno e occupano direttamente e indirettamente 8 milioni di persone. L’auto ha un peso specifico enorme sulla produzione di ricchezza del paese e in diversi stati, dal Michigan alla California, il suo apporto è piuttosto determinante per l’equilibrio fiscale. Nel 2009, Obama ha completato l’operazione di salvataggio di Detroit iniziata a malincuore dal predecessore con la concessione di 85 miliardi di dollari in prestiti agevolati.La Gm di Akerson ela Chrysler di Marchionne, per parlare soltanto delle compagnie più importanti, oggi non sarebbero due costruttori profittevoli senza quei soldi pubblici, 21,7 miliardi dei quali l’Amministrazione per ora conta comunque di non recuperare più. Ma in campagna elettorale, Detroit è oggi una delle poche bandiere che Obama può sventolare contro i repubblicani, che avrebbero voluto abbandonare l’industria dell’auto al suo destino. Con un mercato dell’auto in ripresa, con una disoccupazione ancora alta ma che dà segni di speranza a chi il lavoro non ce l’ha e una campagna elettorale giocata sull’economia, Obama ha nei tre moschettieri oggettivamente degli alleati. Tutti per uno, almeno per questa volta e in nome di interessi comuni.

Akerson si deve accontentare di 9 milioni di dollari pure avendo chiuso un 2011 da record. Lo stato è ancora azionista della Gm con il 26,5% (dal 61% del 2009), mentre dei 49,5 miliardi di dollari ricevuti rischia di farne perdere al governo ancora 14 perché il titolo viaggia intorno ai 24 dollari, meno dei 33 dello spettacolare ritorno in borsa nel novembre del 2010 e lontano anni luce dai teorici 53 dollari con i quali il Tesoro andrebbe pari e patta. Mala Gmha riconquistato l’anno scorso la leadership mondiale davanti alla Toyota, ha aumentato le vendite del 12% sul mercato interno (quota al 19,2%), ha fatto i migliori profitti della sua storia, pari a 7,6 miliardi di dollari, +62%.  Benché senza bonus, Akerson ha promesso che farà ciò che poche aziende – e in genere non dell’auto – fanno: guadagnare 10 miliardi di dollari all’anno nel breve periodo. E’ un obiettivo più che ambizioso, considerando per esempio chela Toyotalo ha raggiunto per quattro anni tra il 2003 e il 2007, cioè prima della crisi sistemica che dal 2008 attraversa il mondo. Secondo Akerson,la Gmdeve aumentare i margini, passando dall’attuale 6 al 10%, tagliare i costi e vendere meglio, nel senso di spendere meno per gli incentivi. Tutto da manuale, ma è più facile a dirsi che a farsi, considerando le turbolenze dei mercati, europeo in particolare, e l’aumento costante dei prezzi delle materie prime. La benzina è arrivata in America pericolosamente vicina alla soglia dei 4 dollari al gallone, l’equivalente dei nostri 2 euro al litro, in entrambi i casi a livelli da clima recessivo.

Lontano dagli occhi, l’ultima mossa di Akerson continua a far discutere: l’alleanza in Europa con Psa, di cui gli analisti vedono bene i benefici per i francesi ma faticano a predirre quelli per gli americani.  La missione è di salvare la Opelda un lungo rosso di bilancio. Ma la storia automobilistica racconta che l’amore a quattro ruote fra lo zio Sam e Marianne non è mai sbocciato veramente e che matrimoni misti di questo tipo sono sempre finiti male. Soltanto il futuro prossimo dirà se la storia può arricchirsi di pagine inedite, o se Akerson ha fatto la scommessa sbagliata.

Dall’Europa, Marchionne ha fatto il percorso inverso, sbarcando in America per restarci e far crescere intorno alla Chrysler il satellite Fiat e forse un altro costruttore, se riuscirà ad allargare l’alleanza. In Chrysler, pur senza stipendio e dopo aver dovuto fare a meno dei richiesti 3,5 miliardi di dollari in nuovi prestiti agevolati del Dipartimento all’Energia, il manager ha firmato un 2011 eccezionale e guida in un 2012 che ha definito un “anno di transizione” per la controllata americana. Quel che è buono perla Chryslerè buono perla Fiate non viceversa, dicono i conti. L’anno scorso,la Chryslerha fatto un utile netto di 183 milioni di dollari, il primo dal 1997, nel 2012 stima di farne 1,5 miliardi. Nel 2011 la casa madre Fiat non avrebbe guadagnato un euro se Marchionne non avesse consolidato i conti Chrysler a partire da giugno, dopo l’anticipato rimborso (di ben sei anni) dei prestiti ai governi statunitense e canadese per Auburn Hills. La quota Chrysler nel mercato di casa è salita nel 2011 al 10,5% dal 9,2%, il primo trimestre del 2012 è andato a razzo, il resto dell’anno dipenderà anche dal prezzo della benzina e forse dalle variabili della politica internazionale, imprevedibili nell’anno elettorale. Per dire, un conflitto in l’Iran sposterebbe tutto.

Marchionne piace e convince l’America, come non riesce a fare più in Italia, sulla scia di numeri sempre più divergenti che accumula fra le due sponde dell’Atlantico. Con una sola macchia: nel dicembre scorso, la rivista Time gli dedica la copertina, “Car Star”. Peccato per lui che questa cover finisca sull’edizione europea, Asia e Sudamerica, mentre su quella statunitense l’elogio è allargato ai tre moschietteri di Detroit con un titolo più nazional-popolare, “Come l’America ha ricominciato a vendere automobili”. A Marchionne va comunque meglio del presidente del consiglio Mario Monti, cui Time dedica un’altra copertina in occasione della visita alla Casa Bianca nel gennaio scorso, salvo sostituire il premier italiano sempre sulla sola edizione statunitense da titolo e foto sull’amicizia tra cani.

Mulally, dall’alto del suo spettacolare stipendio e degli 8,8 miliardi di dollari di profitto operativo della Ford nel 2011, si tiene invece lontano da qualsiasi European Connection. Se Gm va con Psa ela Chrysler salvala Fiat, la missione dell’Ovale blu è di limitare le perdite sui mercati del Vecchio Continente (tornate a essere pesanti) e ballare da solo. Dei tre di Detroit, Mulally è oggi quello che sembra più puntare sui social network per la comunicazione e il marketing globali, che ama raccontare come l’auto sarà sempre più come un telefonino e che ci farà chattare o twittare mentre siamo al volante. Una minaccia, più che una promessa, visto la pericolosità   delle  distrazioni ai volante. All’amministrazione Obama, Mulally non deve nulla, avendo trovato sul mercato delle banche 23,6 miliardi di dollari per finanziarsi prima dell’esplosione della crisi, oltre ad essersi disfatto in tempo sia della quota Mazda che dei marchi del lusso che alla Ford hanno soltanto fatto perdere soldi.

Nel 2012, il mercato dell’auto statunitense dovrebbe crescere di circa un altro 10%, circa 14.000 milioni di veicoli, non male visto dall’Europa (dove scenderà un altro 3-5%), ma nemmeno spettacolare rispetto ai 19 milioni dei tempi pre-crisi. Obama ha già dato all’auto e non può fare di più. Il candidato repubblicano Mitt Romney, per altro figlio di un ex presidente dell’American Motors, a oggi è solo uno sfidante dall’incerto futuro. Aspettando le elezioni di novembre e le prossime scelte dei tre moschettieri di Detroit, Romney ha vinto comunque una piccola battaglia contro il presidente in carica. Spulciando le donazioni private per la campagna elettorale superiori a 200 dollari, consultabili da chiunque in America, scopriamo che alla fine di marzo i donatori del settore vicino all’automobile (Transportation) hanno dato a Romney 846,723 dollari, contro i 314,708 di Obama. Su pista sarebbe un doppiaggio, ma la corsa vera è un’altra.

(dalla rivista  Data Book – InterAutoNews maggio 2012)

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