Ma dove è finito il manager dal sangue freddo che ai sindacalisti americani imponeva di scambiare i diritti acquisiti con una «cultura della povertà»? Sergio Marchionne è un amministratore delegato che non riesce ad amministrare più i suoi nervi. Troppo scoperti, come se navigasse a vista e non sapesse se e quando toccherà terra. Oggi è «Amo l’Italia», «Monti forever», ieri si accapiglia con Diego Della Valle tirandosi scarpe e parafanghi, un altro giorno se la prende con la magistratura che sulla mancata assunzione di operai iscritti alla Fiom gli dà torto, sbraca con Matteo Renzi, che non sarebbe nulla di grave se non avesse insultato a sua insaputa anche Firenze e i suoi abitanti.
Non che Marchionne pensi veramente che sia «piccola e povera» la città di Dante, dove recentemente ha portato in viaggio-premio i suoi migliori concessionari americani della Chrysler e cenato nella «più bella piazza del mondo», ma ormai fa corto circuito ogni volta che parla d’Italia. Quasi fosse uno spaesato americano e non un furbo locale («furbetto», direbbe Della Valle). O forse è vero proprio il contrario: nelle beghe di questa little italy, tra suoi sostenitori pentiti in cerca di visibilità e ricchi imprenditori di scarpe e giornali, Marchionne ci sguazza. Da vero italiano.
Con effetti collaterali insondabili. Se Nichi Vendola si è sentito in dovere di cinguettare «sono vicino a Renzi» oltre che alla città, alla Volkswagen sognano di raddoppiare le vendite nel capoluogo fiorentino. Se una corte d’appello sta decidendo in queste ore se confermare o meno la sentenza di primo grado che accusa la Fiat di «discriminazione» a Pomigliano, a Torino pregano che i giudici non ricordino le parole dell’uomo con il maglione nero. Non l’«uomo nero», come Marchionne ha detto di non voler essere considerato in una intervista al direttore di Repubblica, dove, a un certo punto – parlando di mercati globali e del destino di migliaia di lavoratori in Italia – gli scappa (come fosse un concessionario) che un marchio straniero vende sottocosto la concorrente della sua Fiat 500L. La Citroen Italia quasi ci faceva uno spot: anche Marchionne dice che la nostra auto è migliore.
L’amministratore delegato di Fiat-Chrysler dorme poco e lavora sempre, ma è anche molto curioso di quel che dicono di lui. Sui vari smartphone che possiede, pare legga dai crolli del mercato italiano o dei successi in Nordamerica a tutti i lanci di agenzia che lo riguardano e l’onda della Rete, che su Firenze lo ha sommerso. Deve essere questa lettura terrificante che lo fa sbottare: io traditore? Il tradimento è del mercato, ecco perché ha fatto sparire 20 miliardi che pure in tasca non aveva. Ma come si fa a tenere a freno la lingua se dopo una campagna d’Italia che si voleva radiosa – l’intervista a Repubblica (s’intende: mica alla Stampa), il discorso pubblico all’Unione industriali di Torino e quello del Lingotto ai dirigenti (passato parzialmente alle agenzie di stampa), l’investimento fatto a Pomigliano di 800 milioni (soldi veri, nella fabbrica d’auto più vituperata della storia italiana) viene a suo dire sottovalutato? O nessuno parla di quello a Grugliasco per la Maserati? Poi Carlo De Benedetti, l’ingegnere durato solo 100 giorni in Fiat, dice che «si sapeva» che c’era la crisi e che Marchionne ha sbagliato, e i titoli (dei giornali, non Fiat) volano.
Marchionne ha nervi scoperti perché è in difficoltà vera. Fa il giocoliere, tenendo in aria tutti i birilli – investimenti, nuovi prodotti, fabbriche, ipotetico terzo partner, richieste di aiuti – sperando di agguantarli tutti insieme alla fine dello spettacolo. Ma non riesce, perché ha fatto cadere quello di Fabbrica Italia con i suoi 20 miliardi di investimenti cancellati e ora ha su di sé gli occhi di tutti.
Lo mandano fuori controllo i mercati europei che precipitano. L’agenzia di rating Moody’s che declassa il giudizio su Fiat, che lo porta sei livelli sotto quello Volkswagen e, se non bastasse, che vede nero: outlook negativo, cioè può andar peggio. Eppoi. L’intesa con la Mazda per costruire la prossima spider dell’Alfa Romeo a Hiroshima è ancora un preliminare dopo cinque mesi. Il suo appello ai costruttori stranieri a venire a produrre negli stabilimenti Fiat sotto utilizzate è finito nel nulla. La Commissione europea cui, da presidente di tutti i produttori del continente, ha chiesto soldi per chiudere fabbriche, non gli ha nemmeno risposto. E la Volkswagen gli si è messa di traverso, ricordando che gli incentivi si chiedono semmai per assumere, non per cacciare via la gente. In America, la terra santa, si è comportato addirittura come la Fiom. Ha fatto causa a Veba, il fondo dei sindacati con ancora un pezzo di Chrysler in mano, che contesta la somma da pagare all’azienda per la cessione di un 3,3% delle azioni. Ma c’è ancora il resto da trattare, a occhio sarà ancora più in salita.
Il problema è che Marchionne spesso non spiega, meno che mai dice ho sbagliato, ma spara a zero. Anche nell’ultima vicenda della Consob che, secondo un articolo del Messaggero, avrebbe acceso un faro sulle reali riserve di cassa di Fiat. Ha risposto minacciando querele. Ci manca solo che un veterano del Lingotto come Gianni Coda, oggi a capo dei drammatici mercati europei, rischi il posto perché è un tifoso della Fiorentina.
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