In Europa, sono quattro le famiglie che controllano altrettanti gruppi dell’auto: gli Agnelli-Elkann, i Quandt, i Peugeot e i Piech-Porsche.  Intervengono nella gestione in modo però diverso, affidandosi ai manager chi in parte, chi quasi totalmente. Questa è la loro storia e il loro presente. Con una nota : solo Sergio Marchionne ha un’autonomia che in Fiat sembra assoluta.  Buona lettura da we.

L’Europa dell’auto è in declino da cinque anni. La doppia depressione ha amplificato i problemi di sovracapacità produttiva della parte occidentale del Vecchio continente. La grande famiglia europea ha mostrato divisioni politiche enormi: è bastato che la miccia greca si accendesse e l’euro ha rischiato di scomparire nell’anniversario dei suoi primi dieci anni di vita. Nell’automobile, tuttavia, l’Europa rappresenta due grandi unicità a livello mondiale: è il solo dei quattro mercati globali in cui sono presenti tutti i costruttori  e in cui ben quattro famiglie gestiscono altrettanti gruppi: Fiat, Peugeot, Volkswagen e Bmw. Ma mai come adesso il capitalismo familiare del terzo millennio si è mosso in ordine sparso nella gestione, lasciando il volante  a manager con diversi gradi di autonomia. Uno spettro ampio, viene da dire: da0 a 100.

Partiamo da casa nostra. La famiglia Agnelli, un club di circa 90 persone che non perde un dividendo nonostante la crisi del mercato, oggi è al vertice con John Elkann, presidente di Fiat-Chrysler. La famiglia detiene saldamente il controllo del gruppo con il 30,4% delle azioni. Difeso con le unghie e altro, tanto che nel 2005 una operazione non trasparente a salvaguardia della quota finisce nel mirino della Consob e della magistratura. Dal giugno del 2004, Sergio Marchionne è l’amministratore delegato, con poteri pieni che a molti ricordano quelli di Vittorio Valletta. Altra tempra, altri tempi, altro mondo, non paragonabili in un’era di globalizzazione matura. Ma il margine di autonomia di cui gode Marchionne nella gestione del gruppo, forse anche perché artefice prima del salvataggio dalla bancarotta della Fiat nei primi due anni e poi dell’operazione Chrysler, sembra essere molto più ampio di quello dei suoi omologhi al volante degli altri gruppi europei controllati da un capitalismo familiare.

Pubblico, il quotidiano diretto da Luca Telese, ha dedicato di recente una copertina choc alla Fiat. Sopra la foto dell’Avvocato, il titolo “Lo stanno uccidendo, gli eredi tacciono”. Un modo provocatorio per segnalare il silenzio di Elkann sulla decisione di Marchionne di cancellare definitivamente (la formula concordata con il governo è fino “al momento idoneo”) 20 miliardi di investimenti in Italia, annunciati nell’aprile del 2010 e solo in minima parte fatti. Elkann, da parte sua, non brilla nelle occasioni pubbliche, al contrario del fratello Lapo, che collabora conla Ferrari e si può considerare un vero car guy; ma da uomo di finanza, John detto Jaki ha già fatto sapere nel 2009 di essere pronto a diluire la quota di famiglia se si presentasse l’occasione di una grande alleanza con un terzo partner (allora c’era stato il tentativo conla Opel, poi fallito).

Beato Marchionne. Philippe Varin non l’ha detto in pubblico ma potrebbe averlo pensato in quel di Parigi. L’amministratore delegato di Psa (Peugeot-Citroen), 60 anni come Marchionne, non viene dall’auto come il suo collega italiano e dal 2009 guida il gruppo oggi più malmesso d’Europa. Un titolo in borsa appena estromesso dai primi 40 dopo aver perduto il 90% del suo valore in cinque anni, 200 milioni di cassa bruciati al mese, 819 milioni persi nel primo semestre dell’anno, vendite in calo nel mondo del 13%, un margine operativo negativo del 3,3%. Nel 2011, d’intesa con Varin, gli azionisti hanno avuto comunque 287 milioni di dividendi. I vertici di Psa hanno preferito non rilasciare dichiarazioni per questo articolo all’ultimo Salone di Parigi.

Varin, assunto dopo una brillante fusione nel mondo dell’acciaio, al contrario di Marchionne sembra avere un’autonomia limitata dai Peugeot, una famiglia alsaziana conservatrice, al controllo del gruppo privato francese con il 25,4% delle azioni e con alcuni suoi membri impegnati direttamente nella gestione. Da Thierry Peugeot, presidente del consiglio di sorveglianza che indirizza strategicamente il gruppo, al vice Jean-Philippe, a Christian direttore degli affari pubblici, a Roland per il controllo della produzione. Storicamente i Peugeot tengono ben strette le mani sul volante: quando nel 2006 Thierry decide di nominare amministratore delegato Christian Streiff, parte della famiglia non gli perdona di aver lasciato fuori Robert, all’epoca direttore per l’innovazione e della qualità.

La posizione di Varin, cui Automotive News recentemente ha rimproverato di non avere intorno manager cresciuti nell’automobile, appare complicata, anche se la gravità della crisi in genere esclude cambi di cavallo in corsa. Dal governo di Nicolas Sarkozy, tre anni fa ha ricevuto 3 miliardi di euro in prestiti agevolati (come la Renault, partecipata dallo stato), ma gli obiettivi di vendita non sono stati rispettati e i bilanci sono peggiorati. Il rapporto del settembre scorso di Emmanuel Sartorius, consulente del nuovo governo socialista, ha dato ragione al pdg di Psa sulla necessità di chiudere la fabbrica di Aulnay entro il 2014 e di licenziare 8.000 dipendenti, ma è stato anche un atto d’accusa pesantissimo alla gestione del gruppo. Sostanzialmente incapace di crescere fuori d’Europa. Varin è riuscito tuttavia lì dove nessuno prima di lui: convincere la famiglia Peugeot a un’alleanza non solo industriale, come è stato con Fiat, Ford, Bmw, Toyota. Nel febbraio scorso, la General Motors è diventato il secondo azionista dei francesi, acquistando il 7% di quota per 320 milioni di euro. Un’alleanza molto discussa, nascendo dall’insieme di due debolezze (la Opel, braccio europeo della Gm, ha conti stabilmente in rosso), ma comunque (vox populi) più conveniente per i francesi che per gli americani. Non sembra che le cose siano però partite bene: troppe indiscrezioni dicono che ci sarebbero problemi sulla condivisione delle fabbriche; i Peugeot non hanno mai mollato un centimetro della loro autonomia, gli americani lo hanno fatto salvo non riuscire a portare a termine le missioni congiunte (dalla clamorosa rottura con Fiat al fallimento della controllata Saab). Quale reale margine di manovra abbia Varin dalla famiglia, è una domanda cui è molto difficile rispondere.

Ne ha sicuramente molto dalla famiglia Quandt il cinquantaseienne Norbert Reithofer, il manager che guida il gruppo Bmw dall’1 settembre 2006, dopo una carriera tutta all’interno del marchio bavarese. “Chi sono questi Quandts?”, titolava ancora nel 1999 il settimanale The Economist, cercando di rompere il muro di silenzio e di mistero che avvolgeva la famiglia proprietaria del gruppo con sede a Monaco. I Quandt posseggono poco meno della metà delle azioni, segreto forzatamente rivelato soltanto nel 1995 quando in Germania viene cambiata una legge sull’insider trading. Il potere che non inteferisce con la gestione del gruppo è nella mani di Johanna Quandt, vedova di Herbert che salvò il marchio dal fallimento negli anni ’60. Al suo fianco i figli Stefan e Suzanne Klatten, soprannominata Lady Bmw, una delle donne più ricche di Germania, finita improvvisamente sui giornali quattro anni fa per una storiaccia di ricatti sessuali di un amante. Un clamore insopportabile per una famiglia vissuta nell’ombra, lacerata ancora una volta nel 2011 appena i Quandt hanno ammesso il trascorso nazista della famiglia, dopo avere incaricato nel 2007 uno storico di fare luce sul proprio passato.

I Quandt controllano i loro manager dal consiglio di sorveglianza. Reithofer è in sella, avendo consolidato un primato che, nella disastrata Europa come nel resto del mondo, vale oro: dal 2005,la Bmwè prima nella vendita di auto d lusso con 1,38 milioni nel 2011, contro l’1,3 di Audi (che però corre grazie al successo in Cina) e l’1,26 milioni di Mercedes.  I Quandt, al contrario degli Agnelli-Elkann e dei Peugeot, non hanno mai manifestato nessuna intenzione di cedere quote. “Vendere significherebbe offendere la memoria di Herbert”, scappò a un banchiere di Francoforte che aveva lavorato per loro. Reithofer non è in discussione, ma sa che la famiglia impiegherebbe il tempo di un lampo a intervenire se le cose non andassero bene: come è accaduto al suo omologo Bernd Pischetsrieder nel 1999, dimissionato per i soldi perduti  a causa dell’acquisizione del gruppo Rover.

Pischetsrieder ci porta dritti alla più controversa storia europea di famiglie e di manager:la Volkswagen. Alontanato a Monaco, il manager viene chiamato alla corte di questo altro gruppo tedesco di cui a un certo punto diventa amministratore delegato. Ma il 7 novembre del 2006 viene cacciato su due piedi, poche settimane dopo il rinnovo del contratto. Al suo posto sale (dall’Audi) Martin Winterkorn, oggi ancora al volante. Nell’impero di Wolfsburg chi fa e disfa da più di un ventennio è sempre l’austriaco Ferdinand Piech, 75 anni, ex amministratore delegato, azionista con circa il 7%, presidente del consiglio di sorveglianza del gruppo. Il vero capo di un colosso “essenzialmente posseduto da una famiglia austriaca, che solo incidentalmente viene trattato in borsa”, come mormorano polemici alcuni analisti.

Piech scambia i due top manager come fossero figurine in un giorno d’autunno, perché con il primo ha diversità di vedute e con il secondo no. Sei anni dopo, Winterkorn sta facendo sempre più grande il gruppo tedesco nel mondo, ma è evidente che la sua autonomia è direttamente proporzionale ai voleri di Piech. Il quale governa con pugno di ferro e tira dritto sempre e ovunque. Nell’aprile scorso, nel consiglio di amministrazione fa entrare anche la sua ultima moglie Ursula, 55 anni, ex baby sitter di suoi tre figli e presentata come ex “insegnante d’asilo con qualifiche aggiuntive in affari e giurisprudenza”. Lei, più il clan della famiglia Porsche (che insieme ai Piech controllano il gruppo) gli assicurano potere assoluto.

Piech e suo cugino Wolfgang Porsche sono la terza generazione della famiglia alla guida, con il pendolo però fermo su Piech, come si è visto anche con l’acquisizione del marchio di auto sportive dopo una guerra di religione tutta interna a colpi di miliardi di euro, di teste saltate a Zuffenhausen, di ricorsi ai tribunali. Per Piech è stata una rivincita sulla storia, prima ancora di consegnare il marchio al fido Winterkorn. All’inizio degli anni ’70, Ferry Porsche, che aveva creato il marchio, vieta ai membri della famiglia di guidare come manager l’azienda. Un no che vale anche per il nipote Ferdinand Piech, il figlio ingegnere di sua figlia Louise. Il quale viene costretto a spostarsi all’Audi e solo oggi a chiudere, a suo modo, quel cerchio.

(Articolo tratto da InterAutoNews – Data Book, novembre 2012)

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