Fiat Chrysler, fusione è fatta, via da Torino un grande pezzo di storia. Ma non mi sembra scandaloso: abbiamo accettato (e/o contestato) la globalizzazione? Marchionne l’ha usata fino in fondo. E sarebbe ridicolo se chi vede male l’operazione per motivi di bandiera e di italianità perduta sperasse in quel voto contrario di circa l’8 per cento degli azionisti che potrebbe far tecnicamente slittare la fusione (in quel caso, per Fiat l’esborso per il recesso degli azionisti contrari supererebbe quota 500 milioni negando l’ok all’operazione).

Lo scandalo è altrove. Per esempio in una legislazione europea che permette a Marchionne di portare la residenza fiscale del nuovo soggetto a Londra per  pagare meno tasse, ma senza poter essere accusato di essere  un evasore. Per esempio negli obiettivi annunciati di  FCA per il 2018  – vendite a +61% da 4,4 a 7 milioni –  cui molti analisti non credono ma che permettono a Marchionne di andare per banche e prossimamente a Wall Street e riscuotere crediti. E ne avrà bisogno, avendo promesso investimenti per 55 miliardi di euro nei prossimi cinque anni ed avendo oggi un debito di circa 10. Eppoi la promessa madre di tutte le promesse, riassumere tutti gli operai degli stabilimenti italiani: è il punto per me più importante di questa operazione, ma se non succederà, a chi darà la colpa questa volta Marchionne?

Non trovo nemmeno scandaloso che il giorno prima della fusione siano girate voci autorevoli in Germania su Volkswagen pronta a comprarsi ampi pezzi di Fiat Chrysler o che il Financial Times  abbia scritto lo scorso 24 luglio di colloqui tra Fiat e Peugeot avvenuti l’anno scorso per provare  a fondersi a loro volta. Fa parte del gioco, se si annaspa. Lo scandalo è che nessuno abbia ricordato come queste cose, quando avvengono, in genere portano solo enormi tagli ai posti di lavoro. FCA, almeno per ora, è un’altra storia. Ma sarà bene tenere a mente l’intero contesto.

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