Non è che Toyota, perché è il primo gruppo mondiale dell’auto, faccia tutto e bene. Però una cosa strana per un gruppo industriale delle quattro ruote l’ho trovata da mettere a carico dei giapponesi: fa la carità con altri mezzi.  Tempo fa, mi sono imbattuto in una breve intervista sul Financial Times a una docente di tecnologia del Babson College di Boston in cui raccontava come i suoi studenti stessero studiando (con profitto) come gestire al meglio una banca del cibo attraverso gli insegnamenti della produzione snella della Toyota.

La banca del cibo, la food bank, è un tipo di struttura molto diffusa nel mondo anglosassone: distribuisce gratuitamente pasti caldi a chi ha poco e nulla. Immaginate la crescita verticale di questo strumento negli ultimi cinque anni di crisi.

La storia mi incuriosisce. Cerco altrove, contatto in America il capo della Toyota Production System Support System e la prima food bank di New York , scopro un mondo. Dove la carità, la charity cui molte aziende e multinazionali partecipano con donazioni direttamente o attraverso fondazioni, viene fatta dai giapponesi senza dare soldi: fornendo invece (oltre che ad aziende) a organizzazioni non profit come le food bank o degli ospedali, la sua conoscenza maturata in fabbrica. Non per costruire automobili, ma  per migliorare i processi distributivi di una zuppa calda, o la velocità di confezionamento di un cestino con del cibo.

Insomma, i principi del  kaizen (“miglioramento continuo”) e del lean management (gestione snella) applicati a fini non commerciali. Chiaro che la Toyota in cambio riceve visibilità sui media, fa della filantropia corporate, forse salva l’anima. Ma è un sistema che non se ci fosse, bisognerebbe inventarlo, perché a guadagnare sono soltanto i non abbienti. Milioni di persone. Se vi interessa saperne di più, qui potete leggere la storia che ho scritto per pagina99.

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