Dimenticate la geografia: alla Volkswagen, l’estate è ancora bruciante con temporali violenti. Non tornano i conti al ceo del gruppo Oliver Blume, nato e cresciuto in Bassa Sassonia, il Land azionista al 20%, e fortissimamente voluto dalle famiglie Porsche e Piëch che controllano il colosso di Wolfsburg con il 52,2%. Non tornano i conti, né a Blume né ai soci e, a dirla tutta, nemmeno all’intero sistema economico tedesco, reso ancora più fragile da un governo indebolito elettoralmente dalla montante marea nera. Come fragili sono i numeri  di Volkswagen, basta dare una occhiata ai margini del 2,3% nel primo semestre 2024 dopo un miserello 3,8% nel 2023. Così, è partita la caccia al taglio dei costi: in Germania il colosso ha fatto sapere che potrebbe chiudere una fabbrica o, per iniziare meglio a trattare, forse due. Un tabù, da quelle parti.

Dimenticate l’ordine: alla Volkswagen c’è gran casino. Daniela Cavallo, boss di chiara origine italiana alla guida del più potente sindacato metalmeccanico del mondo, il consiglio di fabbrica di IG Metall, ha detto che per lei e i quasi 700mila lavoratori che rappresenta non se ne parla neppure. E’ al volante da solo tre anni e, grazie al peso specifico del sindacato nella cogestione renana delle grandi aziende tedesche, nel 2022 aveva immediatamente contribuito a far fuori il predecessore di Blume che aveva ipotizzato molto alla lontana 30mila licenziamenti. Detto a parole sue: oggi, caro nuovo ceo, i conti non tornano per errori di gestione, non per colpa degli stipendi dei lavoratori.

Dimenticate il dieselgate: alla Volkswagen il guasto è elettrico. A Blume i conti non tornano perché dopo lo scandalo di nove anni fa sui trucchi ai controlli delle emissioni di alcuni motori a gasolio del gruppo negli Usa, a Wolfsburg si è sterzato bruscamente sulla trazione elettrica. Decisione condivisa dal management, dagli azionisti privati e pubblici e dal sindacato con il consenso dei suoi dieci seggi nel supervisory board che controlla cosa fa il board dei direttori (per i critici, roba da cultura aziendale disfunzionale a danno della redditività).

Dimenticate i blitzkrieg alla tedesca: l’avanzata Volkswagen è lenta, si decide di saltare la transizione del full hybrid e di puntare sulla Cina come volano mondiale delle zero emissioni. Solo che, nella traversata, il mercato elettrico globale rallenta e inchioda in Germania per improvvisa mancanza di incentivi. Mentre i costruttori cinesi – alleati compresi come Saic, con cui il primo accordo è del 12 ottobre 1984 – decidono di mangiarsi Volkswagen e gli altri investitori stranieri dopo avere appreso la lezione su come costruire (bene) macchine, da esportare anche a casa nostra a prezzi competitivi. Volkswagen ha avuto infine problemi comuni a molti: il Covid, i software difficili da mettere a punto, i modelli che tirano e quelli che non tirano, i guai da sovrapproduzione che sono un po’ storia d’Europa.

Non dimenticate questo duetto Volkswagen. Blume a Cavallo: ehi, guarda che i mercati si sono ristretti, “ci mancano le vendite di 500mila auto, circa i volumi di due stabilimenti”. Risposta di Cavallo: ehi, guarda che non è una risposta, “è una dichiarazione di fallimento”. E non dimenticate che il caso Volkswagen riguarda tutti noi. Se i possenti tedeschi chiudono una fabbrica in Europa, chiunque – tranne i cinesi che le aprono – si sentirebbe autorizzato a farlo. O no?

La Settimana Volkswagen, che non è ottimista come i cinegiornali della Settimana Incom nel dopoguerra italiano, mi fa ricordare di non dimenticare che il 5 dicembre del 1993 Ferdinand Piëch, allora al posto di Blume ma con un potere sterminato, firmò con IG Metall il cosiddetto “accordo di Wolfsburg”, chiamato anche la “Settimana Volkswagen”. Non che Piëch fosse un capo azienda bonaccione e democratico: semplicemente, nel suo divide et impera, su molte decisioni aziendali è spesso riuscito a portare dalla sua parte il sindacato contro il parere dei suoi direttori. Come nel 2005, quando dalla presidenza del supervisory board – cui era asceso – impose al board la nomina a capo del personale del gruppo di un sindacalista di IG Metall.

Come reagì Piëch alla crisi, trent’anni fa? Il gruppo navigava sotto la linea di galleggiamento, perdeva quasi 2 miliardi di marchi e, se non ricordo male, come adesso mancavano all’appello 500mila macchine invendute. Piëch aveva minacciato 30mila licenziamenti (altro numero che torna) su una forza lavora di 100mila nei sei stabilimenti in Germania.

La risposta? Lui e i sindacati – all’ombra dei decisori politici della Bassa Sassonia – s’inventarono la “Settimana Volkswagen”: sulle linee al lavoro quattro giorni invece che cinque alla settimana, 28,6 ore contro 36 medie, ma grande flessibilità dei lavoratori per garantire la produzione secondo le necessità aziendali. IG Metall accettò il rinvio di aumenti salariali e la rinuncia a benefici per circa il 10% delle retribuzioni annue. Il sindacato incassò anche l’impegno dell’azienda a non licenziare per motivi economici fino al 2029. Altro tabù, che Blume vuole rimettere in discussione.

Di certo, un contratto collettivo di durata e di contenuti eccezionali, a dir poco. Ma Volkswagen riprese a navigare forte e nessuno perse il posto. Nemmeno Piëch.

(English version)

The Volkswagen Week.

Forget geography: at Volkswagen, summer is still scorching with violent storms. The numbers aren’t adding up for the group’s CEO, Oliver Blume, who was born and raised in Lower Saxony—the state that holds a 20% stake—and was strongly backed by the Porsche and Piëch families, who control the Wolfsburg giant with 52.2%. The numbers don’t add up for Blume, nor for the shareholders, and, to be honest, not even for the entire German economic system, which has been made even more fragile by a government electorally undermined by the rising far-right tide. Volkswagen’s figures are fragile too; just take a look at the 2.3% profit margins in the first half of 2024 after a meager 3.8% in 2023. Thus, the hunt to a cust cutting has begun: in Germany, the giant has indicated that it may close one factory or, to start negotiations on a stronger note, perhaps two. A taboo.

Forget order: at Volkswagen, there’s a big mess. Daniela Cavallo, a boss of clear Italian descent who leads the world’s most powerful metalworkers’ union, IG Metall, has stated that for her and the nearly 700,000 workers she represents, it’s not even up for discussion. She’s been at the helm for just three years and, thanks to the specific weight of the union in the Rhine-style codetermination of large German companies, she had immediately helped oust Blume’s predecessor in 2022, who had distantly suggested 30,000 layoffs. In her own words: today, dear new CEO, the numbers don’t add up because of management mistakes, not because of workers’ wages.

Forget Dieselgate: at Volkswagen, the fault is electric. For Blume, the numbers don’t add up because, after the scandal nine years ago involving emissions test manipulations of some diesel engines in the U.S., Volkswagen sharply shifted toward electric vehicles. This decision was shared by management, private and public shareholders, and the union, with the consent of its ten seats on the supervisory board, which oversees the board of directors (critics call this dysfunctional corporate culture, to the detriment of profitability).

Forget the German-style blitzkrieg: Volkswagen’s advance is slow. The decision was made to skip the full hybrid transition and focus on China as the global driver of zero emissions. But during the journey, the global electric market slowed down and stalled in Germany due to a sudden lack of incentives. Meanwhile, Chinese manufacturers—including allies like SAIC, with whom the first agreement dates back to October 12, 1984—decided to devour Volkswagen and other foreign investors after learning how to build (well) cars, which they now export even to our markets at competitive prices. Volkswagen has also faced problems common to many: COVID, challenging software development, popular and unpopular models, and overproduction issues that have become part of Europe’s story.

Don’t forget this Volkswagen duet. Blume to Cavallo: hey, look, the markets have shrunk, “we’re missing sales of 500,000 cars, roughly the output of two factories.” Cavallo’s response: hey, look, that’s not an answer, “it’s a declaration of failure.” And don’t forget that the Volkswagen case affects all of us. If the mighty Germans close a factory in Europe, anyone—except the Chinese, who are opening them—would feel justified in doing the same. Or not?

The Volkswagen Week, which isn’t as optimistic as the newsreels of the post-war Italian “Settimana Incom,” reminds me not to forget that on December 5, 1993, Ferdinand Piëch—then in Blume’s position but with immense power—signed the so-called “Wolfsburg Agreement” with IG Metall, also known as the “Volkswagen Week.” Not that Piëch was a lenient and democratic CEO; rather, in his divide-and-conquer approach, he often managed to get the union on his side against his directors in many business decisions. Like in 2005, when, from his position as chairman of the supervisory board—where he had risen—he imposed on the board the appointment of an IG Metall unionist as the group’s head of personnel.

How did Piëch react to the crisis thirty years ago? The group was underwater, losing nearly 2 billion marks, and if I remember correctly, just like now, there were 500,000 unsold cars missing. Piëch had threatened 30,000 layoffs (another familiar number) out of a workforce of 100,000 in the six factories in Germany.

The response? He and the unions—under the shadow of political decision-makers in Lower Saxony—came up with the “Volkswagen Week”: four working days instead of five, 28.6 hours versus an average of 36, but with great worker flexibility to ensure production according to company needs. IG Metall agreed to postpone wage increases and to forgo benefits amounting to about 10% of annual salaries. The union also secured the company’s commitment not to make economic layoffs until 2029. Another taboo that Blume wants to challenge.

Undoubtedly, it was an extraordinary collective agreement, both in terms of duration and content. But Volkswagen got back on track, and no one lost their job. Not even Piëch.

@fpatfpat

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