Collaboratori “associati” o “fratelli in solidarietà”? I lavoratori dell’impianto Volkswagen di Chattanooga, Tennessee, stanno per prendere una decisione che avrà enormi conseguenze nell’industria dell’auto americana. La Volkswagen chiama i suoi operai “associates”, una tradizione iniziata 19 anni fa dalla Bmw con l’apertura della fabbrica di Spartanburg nella South Carolina, e che si è poi estesa a tutti i transplant tedeschi che si sono sparsi nel nuovo polo meridionale automobilistico degli Usa.
Gli associates sono i miracolati di una regione che dopo il crollo del tessile erano rimasti pancia all’aria per un decennio, fino a che si è diffusa la bonanza delle assunzioni presso i transplant europei e giapponesi. Accettano qualche dollaro in meno sulla paga oraria rispetto ai loro colleghi del nord, e i salari hanno un ammontare diverso da fabbrica a fabbrica. Ma nel complesso il trattamento non è distante anni luce da quello garantito dai contratti sindacali delle Tre Grandi di Detroit, e fino ad ora il management delle aziende è riuscito a tenere rigorosamente alla porta il sindacato.
Complice dello sbarramento è la legge del “right to work”, che esclude l’arruolamento automatico degli operai di una fabbrica sindacalizzata, e che forza voti palesi per legittimare l’ingresso delle maestranze negli impianti. La Uaw, il sindacato dei metalmeccanici statunitensi, ha provato a più riprese, e al momento sta di nuovo cercando di insinuarsi nella Nissan di Smyrna e di Canton in Tennessee, ma fino ad ora la pressione più che ventennale delle ‘locals’ non ha dato alcun frutto.
Nel frattempo a Chattanooga sta maturando la richiesta di far entrare rappresentanze operaie nella gestione della fabbrica Volkswagen che produce le Passat. A chiederlo, badate bene, non è l’americana Uaw, ma la componente sindacale della stessa Volkswagen tedesca, il cui capo Bernd Osterloh vuole equiparare l’impianto americano al modello cooperativo della bassa Sassonia. Come carota offre di portare a Chattanooga l’assemblaggio di un nuovo Suv, una volta ottenuta la cogestione.
La United Auto Workers non è contraria all’idea, ma chiede che la manovra sia preceduta dalla ratifica della presenza del sindacato in fabbrica; altrimenti si potrebbe generare il sospetto che l’azienda scelga a suo piacimento gli operai più compiacenti da piazzare a fianco del management. La scorsa estate, tra l’altro, il sindacato americano aveva dichiarato di aver raccolto più delle metà delle firme necessarie tra i 1600 operai per dar luogo ad un voto che sindacalizzasse la fabbrica. Le tessere al nord sono in caduta libera, e senza un punto di rottura nel muro di gomma del polo meridionale, la Uaw rischia di scomparire.
La disputa tra i due organismi si svolge per ora in sordina, ma non tanto da addolcire le preoccupazioni dei politici repubblicani che hanno in mano il governo dello stato. Il “right to work” è un pilastro fondamentale della loro strategia, e anche se nessuno è disposto ad ammetterlo, è lo strumento che ha sbarrato finora l’accesso al sindacato, e che ha creato un sottobosco di fornitori che offrono lavoro a condizioni davvero misere, ma tali da rendere il polo del sud estremamente competitivo su scala mondiale. Il senatore Corker che ha in tasca le chiavi delle istituzioni locali sta già tuonando contro la dissacrazione in atto.
Sarà interessante vedere cosa verrà fuori da questo triangolo della nuova industrializzazione, i cui sviluppi potrebbero avere conseguenze di lunga portata per l’intera industria.
[…] Ma solo nel 2016. Tardi? Forse. Tanto più se qualche problema rimane, come abbiamo già scritto qui, con l’Uaw, il sindacato dei lavoratori, per lo stabilimento […]