Ha un avvenire dietro le spalle l’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne. Come ha ricordato mercoledì al Lingotto, nel 2004 ha preso il volante di una Fiat data per morta e l’ha salvata. Per cui i numeri clamorosi sul rilancio di Fiat-Chrysler entro il 2014 «faranno ridere» i concorrenti europei, dice, ma il suo piano va ritenuto credibile perché lui ha fatto di meglio quando si stava peggio.
Nessuno ha riso in pubblico, per ora. Gli analisti e i commentatori della stampa economica internazionale più influenti hanno dato un giudizio nel complesso positivo del suo piano 2010-2014. Solo l’agenzia di rating Fitch ha mantenuto un outlook negativo su Fiat (seguita da Moody’s venerdì), entrambe facendo il loro mestiere perché basano le pagelle sul breve termine (non sul medio come è il 2014) e sul livello del debito. Ma se c’è un paradosso è che i pochi giudizi negativi non sono arrivati sui numeri promessi per il settore auto della Fiat, pure clamorosi e basati su previsioni più o meno aleatorie di mercato, dove basta un vulcano a far saltare l’economia. Ricordiamoli: 3,8 milioni di vetture vendute entro il 2014 (dalle 2,3 del 2009), di cui 500.000 Alfa Romeo (ferma a 101.000 unità nel 2009) e 300.000 Lancia, meno della metà quelle vendute l’anno scorso.
No, i giudizi negativi o quantomeno scettici si sono riversati sulla controllata Chrysler. Al Lingotto, Marchionne ha bollato come «fondamentalmente offensivo» e «totalmente ingiustificato» lo studio di Bernstein Reasearch di Londra, secondo cui la Chrysler non sopravviverà senza ulteriori drastici tagli. L’Economist ci è tornato su, giudicando «estremamente ottimistica» la previsione del manager italiano di portare l’attuale quota di vendita del marchio americano dal 9,2% al 14%, considerando il crollo avuto dal mercato nordamericano e la lentissima ripresa in corso. La Chrysler, secondo i numeri dati da Marchionne (cosa che non capitava dal 2007 per la società americana), nel 2009 ha perso 3,8 miliardi di dollari dopo la bancarotta di giugno, ma ha chiuso il primo trimestre 2010 con un utile di 143 milioni di dollari e un aumento delle riserve di cash di un altro 1,5 miliardi, 7,9 in tutto. Facendo intravedere al governo americano un rientro del debito anticipato (insieme a quello più oneroso della Gm) e scrivere entusiasticamente su un blog ufficiale della Casa Bianca che «questa inversione di marcia non è stata un incidente della storia».
Per Marchionne, il suo avvenire è dietro le spalle anche perché resta un uomo di finanza, come lo è il nuovo presidente John Elkann (cosa sottolineata anche dall’Economist). Con lo scorporo delle attività non auto, la nuova società Fiat Industrial andrà in borsa entro l’anno portandosi dietro la parte con più valore dell’attuale gruppo e una bella fetta del debito causato nella spa dall’auto. In questo, la nuova Fiat sembra la vecchia Fiat: il salvataggio del gruppo dopo il 2004 è stato possibile grazie agli utili generati negli anni da Iveco e Cnh. La nuova-vecchia Fiat autocentrica (come ai tempi di Valletta) non andrà per ora a fusione con la Chrysler, ha detto Marchionne; oggi la controllata americana è iscritta a valore zero e dovrà prima quotarsi in borsa. Però è un fatto che i maggiori soci di Fiat Spa saranno i governi di mezzo mondo, i veri finanziatori di Marchionne: dall’azionista di riferimento Usa alla Serbia, passando per quello russo e in parte per quello cinese, presente nella joint venture Guangzhou-Fiat. Una compagnia cui per ora è difficile aggiungere un altro partner automobilistico. Farlo salire, significherebbe fermare il treno di Torino per diversi mesi. Che fine farebbero gli obiettivi 2010-2014?

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