Torniamo sul luogo del delitto, che nemmeno il più scafato degli autori avrebbe ambientato sulla pista di Misano. Qui, domenica è morto ammazzato il diciannovenne pilota giapponese Shoya Tomizawa, mentre correva una gara della cosiddetta Moto2, cioè la formula dei piccoli che precede il gran premio delle stelle come Valentino Rossi. Il ragazzo scivola e viene investito a 240 chilometri all’ora da altre due moto. Morirà da lì a breve, nonostante i soccorsi.
Potrebbe trattarsi di un orribile incidente che fa parte dei rischi del mestiere e invece si trasforma nella scena di un delitto. Il corpo di Tomizawa viene portato via in fretta e furia. Al punto che il ragazzo scivola dalla lettiga, perché uno dei soccorritori inciampa nella ghiaia. La corsa non viene fermata, nonostante l’evidente gravità dell’incidente che atterra altri due piloti. E’ la scena di un giallo efferato: il corpo deve sparire perché la vita intorno continui come prima. Intendiamo la vita della televisione, degli sponsor, dello share (record giornaliero per chi trasmetteva). E’ la second life che sembra diventata la nostra prima vita e che ha tutti gli ingredienti per essere sempre più realistica. Ci si muore dentro, ormai, e nemmeno virtualmente.
Il corpo di Tomizawa è stato rimosso, ma i testimoni del delitto sono per una volta tanti. Troppi, perché qualcosa non accada. E invece no, a corpo sparito la gara continua. I piloti del gran premio da grandi fingono di non capire che qualcosa di irreparabile è successo. Nessuno comunica nulla, e quando tocca a loro, tirano giù la visiera e partono.
Già. Pare che non sappiano niente di velocità e di come è fatto un corpo umano, l’abc del mestiere: eppure, sulle strisce pedonali in città a volte si perde la vita per molto meno. Per questo è peggio il prima che il dopo gara, quando uno come Valentino fa le smorfie di rito alla telecamera sulla griglia di partenza. Il resto è un the end infimo. Gli organizzatori tirano dritto. Tomizawa verrà archiviato presto come un cold case irrisolto.

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