Ci sono dei no che aprono delle prospettive e uno di questi è stato il no della Fiom alla Fiat di Sergio Marchionne sul nuovo contratto per Pomigliano e Mirafiori, un contratto non contrattabile. «Nel fare sindacato se ci prendi o non ci prendi è una cosa che verifichi alla svelta», dice Maurizio Landini a Giancarlo Feliziani nel libro-intervista “Cambiare la fabbrica per cambiare il mondo” (Bompiani, pp. 164, euro 15), diario di questo ultimo capitolo delle relazioni fra il primo gruppo industriale del paese e il primo sindacato dei metalmeccanici. Un capitolo-chiave per capire dove sta andando la Fiat negli anni della massima competizione internazionale, alla luce della prossima fusione con la Chrysler.
Il Lingotto è già un po’ con la testa e il cuore a stelle e a strisce quando Landini è eletto il primo giugno 2010, nel pieno della tempesta perfetta che sconvolge le relazioni industriali di questo paese. Poco prima, il 21 aprile, l’amministratore delegato Sergio Marchionne annuncia stellari obiettivi di gruppo, da raggiungere entro il 2014. Subordinando gli investimenti a un nuovo contratto, in cui ci sono nel complesso più lavoro e meno diritti. È scontro nelle fabbriche tra lavoratori e azienda e tra lavoratori stessi a suon di assemblee e referendum, è rottura clamorosa tra la Fiat e a Confindustria. Non è tutto, perché Marchionne intanto rinvia o cancella alcuni prodotti del piano di aprile, ufficialmente perché il mercato dell’auto in Europa non va. I concorrenti della Fiat la pensano all’opposto, ma è anche così che delle risorse prendono il volo per la scalata di Fiat alla Chrysler.
Con Marchionne, Landini, emiliano di cinquant’anni, è il protagonista. Anche suo malgrado, tanto è vero che nel libro rende merito a un Marchionne uno (fra il giugno del 2004 e il 2008) e attacca solo il Marchionne due – quello degli ultimi tre anni, quando «accade qualcosa che lui stesso dovrebbe spiegarci. A volte anche i grandi condottieri sbagliano previsioni e strategie delle battaglie». Nel libro, c’è anche molto dell’uomo Landini. Che diventa sindacalista «per un po’ di freddo», come racconta. Molto prima della Fiom, lavorava in un cantiere in condizioni climatiche difficili e un giorno, nella locale sezione del Pci, gli viene spiegato che bisognava tenere conto della situazione della coperativa e che col freddo c’era poco da fare, «l’unico rimedio era quello di coprirsi bene». Landini non ci sta, avvicina il segretario di sezione e gli dice: “Senti, noi siamo dello stesso partito, la pensiamo allo stesso modo, in tasca abbiamo la stessa tessera, però io continuo ad avere freddo”. «Da quel momento – spiega Landini – ho capito che non sempre gli interessi del partito corrispondono agli interessi di chi lavora».
Il Landini sindacalista, in questo anno e mezzo di sovraesposizione mediatica dopo il suo no a Marchionne, fa quattro passi anche con compagni di strada inediti per la Fiom. Da Benigni («ci ha chiamato il miglior sindacato degli ultimi centodieci anni») a Santoro, per l’occasione vestito da metalmeccanico («un’idea dell’ultima ora, quella tuta gliela abbiamo procurata noi. Era il minimo che potevamo fare…»). C’è infine una cosa che non si trova quasi mai nelle interviste di una persona, qualunque sia il lavoro e l’impegno per sé o per gli altri. Quando Feliziani chiede che qualità debba avere un buon sindacalista, Landini dà due risposte: «Deve credere in quello che fa. E deve voler bene alle persone che rappresenta». Una è scontata, l’altra no. Decidete voi.
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