Bisogna affidarsi alla semiotica più che alle labbra di Sergio Marchionne, per avere la certezza di dove sta andando la testa di Fiat-Chrysler. I numeri delle vendite del gruppo in marzo nei rispettivi mercati di riferimento – resi noti ieri per l’Italia e oggi per gli Stati Uniti – sono segni che danno forma e senso migliori di ogni chiacchiera. In modo speculare, alla perdita a precipizio del gruppo Fiat pari a -35,6% di vendite sul mercato casalingo, si contrappone un tondo +34% del gruppo Chrysler in Nordamerica. Un sud e un nord, un minimo e un massimo, l’acqua e il fuoco. E perché il parallelo resti tale senza nessuna convergenza, riporto le parole di Reid Bigland, presidente e amministratore delegato del marchio Dodge e responsabile commerciale per gli Stati Uniti, che spiega il successo attuale del gruppo in America. Fateci caso: sono le stesse motivazioni che di segno opposto stanno scavando un solco sotto la Fiat. Con l’aggravante non detta che Marchionne ha fatto slittare diversi nuovi modelli, rendendo il business Italia oggi sempre più a rischio. Di cui i lavoratori dei cinque stabilimenti non hanno nessuna colpa, altro che rigidità del lavoro e articolo 18. Dunque: Chrysler va, dice Bigland, perché “un più facile accesso al credito, l’economia in ripresa, la domanda precedentemente repressa e un aumento dell’acquisto di veicoli a basso consumo sono tutti fattori che stanno trainando la crescita del mercato”.

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