L’imperatore da mille e una mucca
La Hyundai ne è uscita spacchettando il chaebol, cambiando guida e prendendo il controllo della Kia per pochi won. Una rivoluzione per vie interne, senza veri cedimenti ai diktat della crisi: con l’auto sono rimaste le divisioni costruzioni e l’acciaio, mentre il volante è passato di padre in figlio, dal mitico Ju-jung Chung, un self made man che ha creato l’impero dal nulla e sognato per tutta la vita la riunificazione delle due Coree (dove un giorno si presentò con mille e una mucca in dono), al figlio Mong-koo. Cioè, da un imperatore all’altro. Mong-koo ha oggi 74 anni e gli siamo seduti di fronte, nel quartier generale del gruppo costituito da due torri gemelle che gemelle non sono: quella Hyundai ha qualche metro in più non visibile a occhio nudo, ma chiaro segnale di chi comanda. A Seoul, Chung sembra potere tutto (o quasi tutto), perché rappresenta uno dei pilastri di un sistema paese che sta sfidando il mondo; basti pensare che da poco un altro coreano è a capo della World Bank, Jim Yong Kim, un medico naturalizzato americano chiamato a gestire un bilancio da 260 miliardi di dollari, o al segretario generale dell’Onu Ban Ki-Mun, ex ministro degli esteri e del commercio del governo di Seoul. Non per caso, nel 2006 Chung è stato perdonato con decreto presidenziale da pesanti accuse di corruzione e creazione di fondi neri, per le quali è stato anche in carcere. Il paese non può fare a meno di personaggi come lui anche per riequilibrare i rapporti di forza con l’ingombrante alleato americano. La Corea del sud ha trattenuto il fiato per la scomparsa nel Nord del Caro Leader e il passaggio del potere al figlio, che apparentemente non ha cambiato nulla nelle relazioni sotto il 38 parallelo. La crisi dell’Europa, il rallentamento dell’economia cinese e la fragile ripresa americana preoccupano Seoul, ma fino a un certo punto: nel 2012 si prevede una robusta crescita del 3,5%, dopo il 3,6 dell’anno scorso.
«Our chairman», per il figlio compreso
Chung ci riceve circondato dal top management del gruppo, rigorosamente maschile come da (pessima) tradizione asiatica, quasi nessuno al di sotto dei 55 anni ma, al contrario di quanto accade spesso in Giappone o in Cina, disponibile a parlare con i giornalisti stranieri. Tutti chiamano Chung «our chairman», il nostro presidente (un passo avanti rispetto al padre chiamato «re presidente»), in alternativa «our global ceo». E’ «our chairman» anche per suo figlio Euisun, l’erede designato che con i suoi 43 anni è l’eccezione che conferma la regola. Chung non è solo il presidente-amministratore delegato del gruppo, è il proprietario, l’Agnelli di Corea quando l’Avvocato aveva in Italia un potere altrettanto tentacolare e riconosciuto. In quanto tale, i suoi uomini si aprono a metà come al passaggio di Mosè quando si muove per mostrare l’opulenza del moderno castello. Confida uno dei suoi a cena (dove il Capo non c’è): anche i top manager avrebbero diritto a un sabato pomeriggio e a una domenica liberi ogni due settimane, ma siccome il loro caro leader è sempre al lavoro (con rapporto scritto per tutti ogni lunedì), nessuno si assenta mai. Chung governa il gruppo dal 2000 e ha trasformato le vetture dei due marchi fin lì famose per il prezzo basso e la cattiva qualità in automobili di ottima qualità (dicono in particolare le agguerrite associazioni americane dei consumatori) e tecnologicamente avanzate.
Come ha fatto? Qualche notizia aiuta a capire come un marchio che ha costruito la sua prima automobile soltanto nel 1973, la Pony disegnata da Giorgetto Giugiaro, sia diventato un gigante che ha messo il fiato sul collo al gruppo Volkswagen, oggi il più in salute a livello mondiale. Alla Hyundai-Kia sostengono di aver venduto 10 milioni di veicoli dal 1967 al 2003, ma 20 dal 2003 a oggi; hanno stabilimenti nelle due Americhe, in Europa, in Russia, in India e quando in Cina (primo loro mercato) il terzo sarà pronto entro la fine del 2013, potranno contare sulla produzione in loco di 1,2 milioni di veicoli.
Ulsan, la più grande del mondo
E ancora: il gruppo ha a Ulsan, nel sud del paese, la più grande fabbrica del mondo di automobili, con una capacità produttiva pari a 1,53 milioni di veicoli all’anno (più di cinque volte quella Fiat di Pomigliano); e Hyundai-Kia è l’unico produttore al mondo che si fa in casa l’acciaio per le proprie vetture, con specifiche per i propri modelli che danno un vantaggio competitivo unico su qualità e costi. Se non bastasse, Chung o Hyundai-Kia che sono la stessa cosa, compaiono ovunque nella vita del paese come nella promozione all’estero. Sono sponsor degli Europei di calcio fino al 2016 e dei Mondiali fino al 2022, sponsor principale della Expò in corso a Yaeosu, nel sud del paese, dedicata al rispetto delle coste e degli oceani (l’Italia ha un suo padiglione), mentre più in piccolo la Fondazione Chung finanzia borse di studio per studenti universitari. In un paese dove il governo investe già molto su istruzione e ricerca, spingendo sui giovani per una competizione feroce.
Chung ci dice di apprezzare Sergio Marchionne per come sta gestendo l’integrazione tra Fiat e Chrysler, ma risponde secco di non essere interessato a produrre nelle fabbriche Fiat, idea con cui l’amministratore delegato italiano penserebbe di risolvere i suoi problemi di sovracapacità produttiva in Europa. «Noi vogliamo concentrarci – ci dice Chung – sulla qualità e questo è possibile soltanto se produciamo dentro i nostri stabilimenti. Perché possiamo avere il controllo totale su quello che facciamo». Per capire che non si tratta di sterile orgoglio, ci invita a visitare una delle quattro fabbriche del paese, quella di Asan, fortemente automatizzata, 4.000 dipendenti di cui le donne sono meno del 5% per una capacità produttiva di 300.000 auto e 600.000 motori all’anno; il centro ricerca e sviluppo di Namjang, l’anima dell’impero dove una sorta di Control room (che non ci mostrano) con intranet e telecamere accese 24 ore su 24 in ogni impianto produttivo e commerciale del mondo Hyundai-Kia permette un «efficiente monitoraggio»; e soprattutto la grande acciaieria a Dang Jin della controllata Hyundai Steel, a un’ora e mezza di auto da Seoul.
Visitarla è come fare un breve viaggio tra passato e futuro. Ci accoglie il ceo (presidente amministratore delegato), Yoo-Cheol Woo, l’aria furba di chi sa di essere nel cuore dell’imperatore senza essergli fisicamente vicino come gli altri top manager che abbiamo incontrato a Seoul. Perché dal 2006 l’acciaieria è «l’unica al mondo connessa all’automobile», dice Woo, con allo «studio una nuova qualità dell’acciaio ad alta resistenza che migliora la sicurezza dell’automobile». Delle 8,5 tonnellate di acciaio prodotte quest’anno, la metà serve esclusivamente per la fabbricazione dei modelli Hyundai-Kia, solo in parte esportato nelle fabbriche all’estero. Woo lavora a stretto contatto con gli uomini di Namjang, da dove arrivano le specifiche tecniche: nessun altro costruttore può contare su una simile filiera interna. «Compriamo quel che c’è sul mercato – spiega Woo – ma siccome vogliamo fare qualcosa di diverso, meglio se partiamo dal materiale grezzo. Il nostro obiettivo è essere unici». Risparmiate rispetto ad altri costruttori che comprano per le loro vetture l’acciaio lavorato altrove? La risposta di Woo è in odore di segreto industriale, per cui è da prendere con cautela: «Sarebbe più conveniente acquistare il già pronto, spendiamo di più nella ricerca ma questo è un valore aggiunto per Hyundai-Kia». Visti i margini del 2011 del gruppo, un clamoroso 10,3% secondo soltanto al 10,6% della Bmw che però vende auto di lusso su cui si guadagna di più, è chiaro che i conti tornano loro piuttosto bene.
Hyundai Steel, per 10 miliardi di dollari
Woo ci affida infine al suo vice, per un giro in un enorme hangar in cui sono stipate due montagne di materiale grezzo, «totalmente importato e da cui dipende per il 60-70% il costo finale dell’acciaio»: a destra, più rossiccio, è acquistato in Australia, a sinistra, più scuro, viene dal Brasile. Da lì ci spostiamo al’interno di uno dei due altoforni (un terzo è in costruzione), in cui i materiali vengono mischiati secondo necessità e manchiamo (perché il tempo è scaduto) una visita all’impianto che trasforma quanto abbiamo visto in lastre d’acciaio. Solo qui, il gruppo ha investito 10 miliardi di dollari.
Rientrando a Seoul, incrociamo mentalmente i dati sull’acciaio con quelli sullo sviluppo delle motorizzazioni alternative acquisiti a Namjang: ha ragione Martin Winterkorn, il gran capo del gruppo Volkswagen, a temere Hyundai-Kia come il primo vero rivale per tutti. Qui fanno tutto in casa come nessun altro, ed è un peccato che sul futuro dell’auto elettrica, Chung si mostri più che cauto: solo nel 2015 il gruppo venderà modelli a batteria, nonostante a Namjang ci abbiano fatto guidare una piccola Hyundai i-10 elettrica (2.000 sono già circolanti in Corea, in dotazione a enti pubblici), dimostrando di essere già pronti. Ma qui (come Marchionne e altri che preferiscono non dirlo ad alta voce) pensano che non ci sia ancora business per questa soluzione troppo costosa per il cliente e dunque se ne sbattono di arrivare quasi ultimi sui mercati. «Abbiamo un’idea un po’ diversa – ci spiega Chung senza convincerci – non vogliamo produrre subito auto elettriche in grado di competere sul mercato con i normali veicoli benzina e diesel, ma riteniamo che l’elettrico sia un altro mezzo di trasporto, anche per l’autonomia limitata che ancora ha. Da questo punto di vista preferiamo promuovere veicoli a cella combustibile, perché hanno una autonomia molto più ampia. E’ un settore dove abbiamo fatto notevoli progressi». E dove i costi sono ancora più alti, tant’è che giganti come la Bmw hanno dovuto frenare la loro corsa al sistema fuel cell. A Namjang, ci hanno fatto guidare anche una ix35 a celle combustibili, in vendita nel 2014 ma già circolante sulle strade di alcuni paesi europei che hanno promesso le infrastrutture per la distribuzione dell’idrogeno. Sembra un altro colpo acrobatico per atterrare i rivali tipo quelli da taekwondo, lo sport nazionale coreano entrato nel medagliere olimpico nel 2000. Per coincidenza, lo stesso anno in cui tutto il potere è andato ad «our chairman».
[…] la possibilità di incontrare a Seoul insieme ad altri massimi dirigenti del gruppo due anni fa (qui il reportage scritto al ritorno), con 6,5 […]