L’Economist, bibbia settimanale dell’economia mondiale, mette sul tavolo nel penultimo numero di agosto le carte di Sergio Marchionne. La partita è quella di Fiat-Chrysler, con i tempi della fusione resi incerti da un giudice del Delaware cui il sindacato americano si è rivolto per alzare il prezzo delle azioni Chrysler ancora nelle proprie mani. Il giudice ha deciso di non decidere entro l’inizio dell’estate e Marchionne – con i soldi in bocca grazie a un pool di banche d’affari – sta lì ad aspettare. Anche se rischia di dover pagare più di quanto stabilito nel 2009. Potrebbe ancora farcela per la fine dell’anno, ma non è detto.
L’articolo racconta delle perdite di Fiat, degli utili di Chrysler, dei margini dimezzati di Fiat in Brasile rispetto a pochi anni fa, del flop di Fiat in Cina, dei circa 12 miliardi di dollari di cash di Chrysler cui punta Marchionne dopo la fusione, “vitali per far andare la Fiat”, del piano del manager di trasformare i marchi Alfa Romeo e Maserati in premium vincenti. Tutto senza nascondere dubbi e difficoltà.
Ma fin qui sarebbe un articolo soltanto corretto. A renderlo politicamente corretto, senza se e senza ma, è quando si ricorda che il presidente della Fiat, John Elkann, “è anche nel board della proprietà dell’Economist”. Sembra banale, ma non lo è. Avete mai letto per esempio un articolo sulla Stampa che parla di Fiat e ricorda ai suoi lettori che Fiat è anche proprietaria del giornale?