Elon Musk ha calato sul tavolo l’asso di briscola che da tempo si sospettava avesse tra le mani: la megafabbrica di batterie da 5 miliardi di dollari si farà in Nevada entro il 2017, nelle prossimità di Reno. Sarà un impianto da Guinness dei primati: un milione di metri cubi costruiti su 250 ettari di terreno; 6.500 addetti per la produzione di 500.000 batterie in un anno, equivalenti a di 35 gigawatt-ore.
Nessuno ha mai osato tanto e nessun imprenditore nel mondo dell’auto è mai arrivato come Musk alla vigilia dell’avventura industriale con un tale credito finanziario alle spalle: 34,5 miliardi di capitalizzazione in borsa, con un titolo che negli ultimi 20 mesi è salito del 700%.
Con l’annuncio, la Tesla non è più una giovane azienda dalle brillanti promesse ed entra nel mondo adulto dei costruttori americani, con gli analisti pronti a giudicare sulla sola base dei numeri. Mercoledì scorso la influente Lux Research ha scritto che la fabbrica Tesla nel 2020 avrà almeno un 57% di sottoutilizzo, in base alle proiezioni di vendita di auto elettriche che l’agenzia stima a circa la metà di quelle dichiarate. Musk insiste nel dire l’economia di scala gli permetterà di portare entro il 2017 il costo della futura Model III a 35.000 dollari, e spalancare quindi le porte degli acquisti a quella classe media che finora è rimasta a sbirciare dalle vetrine delle sue show room i modelli attuali da 75 e da 100 mila dollari.
Il miracolo è tutto da verificare: la storia degli anni recenti dice che una volta che si scende sotto la soglia miliardaria di clienti disposti a pagare qualsiasi cifra per sedersi su una Tesla innovativa e modaiola, il gran pubblico disdegna un’ibrida elettrica da 35.000 dollari come la Volt, relegata a cifre di vendita da fuoriserie di Maranello.
Musk è un abilissimo venditore di sogni: nei giorni successivi l’annuncio del Nevada, è volato a Tokyo, dove ha promesso che tutte le Tesla del futuro saranno pronte per la guida automatica senza pilota e ha ventilato un accordo con la Toyota che rimpiazzi, e auspicabilmente migliori, la collaborazione claudicante di due anni fa per l’elettrificazione della Rav 4.
Il Nevada si è aggiudicato la fabbrica con un’offerta di incentivi fiscali da 1,2 miliardi di dollari, una cifra che la California, sede principale della Tesla, non è stata in grado di pareggiare. Nella contesa tra stati a caccia del “grande elefante” della megafabbrica si era inserito anche il governatore del Texas Rick Perry, ex contendente repubblicano nella corsa presidenziale del 2012. In campagna elettorale aveva sputato veleno contro gli incentivi governativi per la produzione di energia alternativa, ma di fronte ai 6.500 posti di lavoro Perry non ha esitato a indossare il saio e presentarsi di fronte al parlamento di Sacramento, capitale della California, alla guida di una Model S. “Gran macchina, peccato che non abbia la targa del Texas”, ha ironizzato.
Peccato davvero. Il suo stato, dove l’influenza della lobby delle concessionarie è sovrana, è in guerra con la Tesla e contro la sua pretesa di scavalcare i dealers e vendere direttamente ai clienti. Per effetto di leggi e leggine locali, le due show room della casa ad Houston e ad Austin non possono esporre il prezzo delle vetture, né i loro commessi possono discuterne con i visitatori o concedere prove di guida. Chi compra un’auto da Elon Musk se la vede recapitare da una ditta terza che ha appaltato il servizio di consegna e non può esibire il logo Tesla. Il personale tecnico della Casa può recarsi a domicilio dell’acquirente solo 48 ore dopo l’arrivo dell’auto per spiegare come far funzionare la vettura, e le riparazioni in garanzia vanno ordinate tramite un contatto con la casa madre in California, la quale poi assegna il lavoro a contrattisti texani che non sono autorizzati a qualificarsi come officina ufficiale di riparazioni della Tesla, né a discutere i termini della garanzia con il cliente.
Con questi precedenti alle spalle, ma perché mai Musk ha sdegnato il corteggiamento di Perry e ha preferito il Nevada?
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