In Chrysler la raccontano così: se l’automobilista non può visitare la fabbrica dove viene costruito il suo “bolide”,  perché non portare la fabbrica all’automobilista? La Fiat Chrysler americana l’ha appena fatto con la collaborazione di Google. Da qualche giorno su questo sito http://www.chrysler200factory.com/ è possibile intrufolarsi virtualmente nel rinato stabilimento di Sterling Heights, a un tiro di schioppo da Detroit, dove si assembla la nuova berlina Chrysler 200 da poco nei concessionari.

Semplicissimo il copione della visita a 360 gradi: pulizia da clinica svizzera,  automatismi a tutto spiano, controlli da 007, pochi operai. Con qualche click si può assistere dall’interno della scocca alla danza dei robot Comau (rigorosamente made in Italy) che saldano l’acciaio con l’intervento contemporaneo a farfalla di 18 braccia arancioni oppure al volo acrobatico delle vetture ancora nude che vengono capovolte per consentire ad altri robot di stendere l’isolante sul pianale non senza eleganza.

Ma perché Fiat Chrysler, una società dipinta da sempre come se vivesse su una nuvola finanziaria, pone tanta attenzione alle modalità di produzione delle sue nuove auto?

L’operazione di marketing è evidente. La nuova 200 è la prima Chrysler con le stimmate FCA. E  nei piani di Marchionne si legge che proprio le berline di questo marchio saranno un cavallo di battaglia del gruppo in Usa, con un triplo salto carpiato che vedrà le vendite Chrysler passare da quota 350.000 nel 2013 a 800.000 nel 2018.

Per conquistare l’americano medio – deluso dalla maggior parte delle precedenti berline  “made in Usa” – è strategico presentare una fabbrica che non ha nulla da invidiare a quelle giapponesi o tedesche o a quelle nuovissime (e “pericolose” per i posti di lavoro) in costruzione in Messico. Di qui il grande sfoggio di robot e di organizzazione. Ma anche l’assenza stonata –  per non offuscare le tecnologie – delle immagini della parte forse più interessante della fabbrica: il montaggio e i suoi “vecchi” operai. Operai che pure hanno vissuto una rivoluzione rispetto alla vecchia Chrysler con un massiccio coinvolgimento fin dalla fase di progettazione della nuova fabbrica e con il sindacato UAW  che cogestisce il nuovo sistema produttivo di Fiat: il World Class Manufacturing.

Ma a ben vedere il messaggio “visita la tua fabbrica americana” è ancora più sottile. Vi si intravede un robusto richiamo all’orgoglio nazionale che in Usa funziona sempre. Infine, l’operazione affonda le sue radici in una svolta culturale da non sottovalutare. Negli anni della presidenza Obama l’America è prepotentemente tornata al manifatturiero che ha creato 700.000 nuovi posti di lavoro dopo vent’anni di declino verticale. In questo contesto Sterling Heights, con i suoi 3.260 lavoratori, assume il valore di una bandiera: la fabbrica doveva chiudere nel 2009 quando Chrysler era in bancarotta e invece dopo appena cinque anni è un tassello pregiato del sistema industriale americano.

 

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