Conti a posto, niente in ordine. Il consiglio di amministrazione della Fiat ha approvato sia lo scorporo delle attività non automobilistiche più debiti finanziari in un’altra società da spedire in borsa il prossimo gennaio, sia il bilancio del secondo trimestre, con utili per 113 milioni di euro (92 nel primo semestre). Avremo due Fiat, insomma: una a quattro ruote più avventurosa, controllante di Chrysler e chissà se in futuro con altri produttori; e una più solida, Fiat Industrial spa, destinata a fare più soldi e per la quale infatti le banche sono già pronte a metter mano al portafoglio per 4 miliardi di euro, con gran festa in borsa.

Marchionne sostiene che tutto ciò “darà chiarezza strategica e finanziaria a entrambi i business”. Ma è la terza Fiat dell’amministratore delegato a restare nelle nebbie. La riunione del cda Fiat è stata fatta ad Auburn Hills, in casa Chrysler invece che a Torino. Bene, se questo significa niente nazionalismi, come nelle alleanze Renault-Nissan o Daimler-Chrysler, dove i consigli si sono sempre riuniti a Parigi e Stoccarda. Male, se è il messaggio che si vuole dare è un altro: come è bello governare dall’America, dove i sindacati sono un tutt’uno con l’azienda.

La terza Fiat di Marchionne manca poi di “chiarezza strategica”  nello scontro che ha aperto nelle fabbriche italiane dopo la sconfitta subita nel referendum di Pomigliano. Ha licenziato un operaio a Termoli, dopo i tre di Melfi e un altro a Mirafiori in sole due settimane. Azioni in odore di vendetta, essendo i licenziati della Fiom e uno dei Cobas, cioè i sindacati usciti rafforzati dalla prova di forza imposta nello stabilimento campano.  E alla fine del cda, parlando con gli analisti, ha annunciato un0’altra decisione che sa di vendetta, spostando la prossima produzione di due monovolume da Mirafiiori in Serbia (qui potete leggere tutto). E’ davvero così che Marchionne pensa di governare? Finora, aveva evitato lo scontro con i lavoratori, consapevole che non sarebbe convenuto a nessuno. E non a caso la resurrezione del gruppo è coincisa con questo periodo di confronto aperto.

L’amministratore delegato ha cambiato marcia con il piano quinquennale del 21 aprile scorso, con obiettivi di crescita difficili da digerire senza se e senza ma: 3,8 milioni di vetture del gruppo Fiat prodotte entro il 2014, dalle 2,3 del 2009. Un piano che comprende la controllata Chrysler e che nasce su un patto di sangue con il presidente americano, affinché nel 2014 anche l’azienda americana sia a posto e il prestito federale restituito da un pezzo. Ma per portare a casa questo duplice obiettivo, Marchionne deve scalare montagne. La logica dello scontro negli stabilimenti italiani rischia di rallentare pesantemente una marcia che già di suo non può essere trionfale, vista la competizione globale. Né sono i tempi di Valletta o di Romiti, come si è visto nell’altra marcia fallita pro-accordo di Pomigliano alla vigilia del referendum. Marchionne va allo scontro, tipo la va o la spacca? Di sicuro, non può lasciare il gruppo, almeno finché non ha pagato i debiti alla Casa Bianca. Dopo, però, tutto è possibile. Perché la nuova Fiat a quattro ruote resta in mano a eredi Agnelli pronti a liberarsi dell’auto. Il ramo meno redditizio, che non è più nemmeno un tabù.

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