Di Maurizio Landini non bisogna chiedere ai suoi compagni di lotta e di governo Fiom, perché sennò sarebbe santo subito: simpatico, non arrogante, collegiale nelle decisioni. Del segretario generale della Fiom non bisogna chiedere neppure in Fiat, perché sennò sarebbe diavolo subito: tosto, controparte, anzi no comment perché è l’Avversario. Delle sue parole di sabato scorso a Roma, alla prima manifestazione di piazza da segretario, le agenzie di stampa internazionali hanno però riportato l’essenziale: «La competizione non si insegue tagliando salari e diritti». Che poi è tutto, al confronto con il dixit di Marchionne: «L’accordo di Pomigliano non azzera alcun diritto».
Nemmeno un mese fa, Landini ha spiegato la storia a Bob King, il capo del sindacato dei metalmeccanici americani (Uaw), entrambi nominati in giugno, uno tratta con Marchionne in Chrysler, l’altro in Fiat. «Non parlo inglese, ho bisogno di un traduttore, ma le nostre ragioni non sono state per King delle stranezze, il problema è che qualcuno ci aveva descritti come dei comunisti e non come dei sindacalisti». Naturalmente un «incontro utile», con la promessa che Landini un giorno vada ad Auburn Hills e parli agli operai americani. In modo conciso, non lungo come dalle nostre parti: sabato ha chiesto ai suoi di fermarlo ai venti minuti, ha chiuso ai trenta. In tv funziona, ha capito tutto.
Con Marchionne, il segretario della Fiom si è incontrato una sola volta, il 28 luglio a Torino. Nessuna cravatta al collo per entrambi, stretta di mano formale e nulla più. Eppure i due hanno in comune più di quel che si potrebbe pensare. A cominciare dalla cima: non vengono dall’auto. Se Marchionne è dottore commercialista e avvocato e prima della Fiat si occupava esclusivamente di finanza, Landini studia due anni da geometra e poi va a lavorare da operaio di una famiglia di operai di Castelnovo Ne’ Monti, montagne intorno a Reggio Emilia, passando per una iscrizione al Pci, un po’ di Pds corrente Mussi e poi tanta, tanta Fiom. Non tra bielle e pistoni ma in Indesit, Electrolux, Piaggio, dove si fa quella fama di trattativista a oltranza che piace a Claudio Sabattini, segretario del rilancio Fiom nei Novanta. Suo padre numero due, seguito da Gianni Rinaldini suo padre numero tre che infatti lo sceglie per successore.
Come Marchionne – che dice di voler solo vendere macchine e poi cerca di cambiare l’intero sistema di relazioni industriali del paese – Landini rivendica il suo essere sindacalista andando ben oltre, per fortuna dell’intera sinistra sempre di questo cavolo di paese in preda al berlusconismo. Per cultura e per generazione – formatasi alla vigilia del cambio di millennio – Landini appartiene a un sindacato che ha supplito alla mancanza di politica a sinistra, fin dalle manifestazioni contro la guerra in Jugoslavia. Che poi è quello che fa Marchionne, supplendo a suo modo alla mancanza di politica del governo. Insomma, chiaro che è e sarà battaglia a tutto campo, superfluo che Marchionne citi Marx e Landini confermi di non averlo letto.
Al contrario del boss di Fiat-Chrysler, di americano il segretario della Fiom non ha nulla, se non che è nato tre giorni dopo Barack Obama. Stessa età, per altro, di due dei quattro manager più vicini a Marchionne. Nel poco tempo libero, legge gialli per distrarsi (oltre a saggi di sociologia per non distrarsi troppo), ascolta musica italiana un po’ datata come De Gregori, più botte di vita come la Nannini o Zucchero. Da ragazzo ammette di avere avuto il mito di Gianni Rivera e dunque per un po’ di aver tifato Milan. Andati via Gullit e Van Basten, il calcio rossonero finisce in fondo a qualche armadio come una sciarpa vecchia.
Sul tetto della Fiom è arrivato passando per la reggenza del sindacato di Reggio Emilia, della regione Emilia Romagna, di Bologna, mai fermandosi in qualche stabilimento di meccanica e di motori, che pure dove vive sono un rombo continuo. Con la Fiat ha una tale non dimestichezza (ma sa veramente tutto, comincia sempre dai diritti, ammette alla fine uno di quelli del no comment) che nel 1999 si compra come auto personale una Nissan Primera, «era quella che costava di meno». Ce l’ha ancora.
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