Un dottore commercialista e avvocato sta salvando la Chrysler dalla bancarotta, dopo essersi messo d’accordo nientedimeno che con il presidente degli Stati Uniti. Un manager che ha passato la vita a occuparsi di cloche d’aerei, fa volare la Ford senza aiuti di stato in mezzo alla tempesta perfetta dell’ultima grande crisi economico-finanziaria mondiale. Un repubblicano con una lunga esperienza nelle telecomunicazioni e poi in finanza ha il compito di riportare in borsa la Gm e far dimenticare al mondo la bancarotta dell’ex numero uno dell’auto. E un manager dell’alluminio e dell’acciaio studia formule per nuove alleanze, oltre che la fibra di carbonio per le sue Peugeot e Citroen, nemmeno fossero delle Ferrari.

Li chiamano gli outsider. Ma dove sono finiti i car guy, quei ragazzi con benzina nelle vene che hanno fatto e disfatto il mondo delle quattro ruote per più di cent’anni? Intendiamo i numeri uno, gli amministratori delegati o i presidenti con una carriera quasi esclusiva in quella che a suo tempo è stata battezzata l’industria delle industrie? Solo alcuni di loro sono star in servizio attivo, come Carlos Ghosn alla Renault-Nissan (14 anni di auto e 18 di Michelin) o Dieter Zetsche alla Mercedes-Smart (in Daimler dal 1976). Altri hanno fatto un passo indietro per limiti di età come Ferdinand Porsche, pur pesando ancora quanto un capo supremo, seduto in cima al gruppo Volkswagen con dentro adesso la Porsche. Altri sono andati davvero in pensione, come è accaduto nel giugno scorso al più famoso di loro, il principe della categoria, Bob Lutz. Altri, infine, stanno lavorando per diventare forse un giorno car guy number one; nel frattempo, al posto di guida siedono uomini nuovi (mai donne, e qui purtroppo non c’è nulla di nuovo) provenienti da altri settori e con una formazione finanziaria che li ha privilegiati nell’assunzione.

Tutto questo in occidente, perché se si guarda alla Cina, il nuovo che avanza è totalmente senza storia automobilistica. Lì gli outsider sono quarantenni a capo di un’industria pubblica e privata che vengono dal nulla, con soldi in tasca e intelligenza strategica. Pensano in grande e si allargano all’estero affidando le macchine ai manager di settore di ogni nazionalità. Un caso per tutti, la Volvo comprata dalla Geely e data in mano a Stefan Jacoby, ex capo della Volkswagen Nordamerica.

Ma abbandoniamo i car guy al loro destino e vediamo da vicino gli outsider. Daniel Akerson è il numero uno della General Motors dall’1 settembre 2010. La prima volta che ha messo piede nel mondo delle quattro ruote è successo nel luglio del 2009, quando il costruttore finisce in bancarotta pilotata, il suo artefice primario Rick Wagoner è già stato cacciato, nel nuovo consiglio di amministrazione siede il governo americano. Californiano, 62 anni, nelle dieci società precedenti di cui è stato a vario titolo dirigente, membro di cda e ceo, di automobilistico non c’è traccia. Molte telecomunicazioni, un passaggio alla American Express, dal 2003 a capo di Carlyle, colosso del private equità: 32 fondi, circa 31 miliardi di dollari da gestire, società fra le più importanti fornitrici del Pentagono in cui hanno lavorato fra gli altri i Bush padre e figlio e il fratello di Osama Bin Laden, Shafig.

Che c’entra Akerson con le macchine? Nel libro di memorie “Overhaul” uscito il 14 ottobre negli Stati uniti, Steve Rattner, capo negoziatore della Casa Bianca per il salvataggio di Gm e Chrysler, a un certo punto racconta come gli dispiacesse che Fritz Henderson, una vita in Gm e salito al vertice, venisse fatto fuori dal cda, terzo ceo silurato nel giro di due anni. “Lui era un vero car guy”, commenta Rattner, che per altro sarà costretto a lasciare nel luglio del 2009, a missione compiuta, perché da uomo di finanza viene messo sotto inchiesta dalla Sec, l’autorità di borsa americana. Akerson prende il posto di Ed Whitacre, che nell’ultimo anno ha guidato la Gm con pugno di ferro, riassumendo in sé sia il ruolo di amministratore delegato che di presidente. Akerson delegherà ad altri il compito di fare macchine belle o meno belle, ma sembra l’uomo giusto al posto giusto al momento giusto: la Gm ritorna in borsa in novembre, cercando denaro per il suo rilancio e di fatto ri-privatizzandosi con la cessione di quote oggi in mano al governo. Una delle quali è ambita dal gruppo cinese Saic, già partner soddisfatto di Gm in Cina. Saic è controllato dallo stato, per cui si può dire che presto potremmo vedere dei comunisti in Gm. E non a caso in America c’è già qualche commentatore che definisce la possibile operazione una “tricky sell”, una vendita insidiosa.

Aspettando che brilli la stella di Akerson, quella di Alan Mulally illumina ormai la galassia automobilistica. Con la sua aria da pilota di caccia della marina si è presentato al recente Salone di Parigi per dare un segno tangibile della sua strategia “One Ford”. Che qui traduciamo liberamente “uno per tutti e tutti per uno”, un messaggio cruciale per Ford Europa alle prese con mercati in crisi mentre in America la Big di Detroit è tornata a guadagnare molto.

Mulally, nato 65 anni fa in Kansas, è stato finora un plane guy. Dopo 37 anni in Boeing, perde l’ultimo slot per diventare ceo e allora nel 2006 accetta l’offerta di Bill Ford, presidente proprietario del gruppo omonimo. Ci mette un po’ a orientarsi: nel novembre del 2008, parlando agli analisti di Wall Street, magnifica la presentazione della piccola Ford Ka al “Paris Air Show” invece che al “Paris Motor Show”. E’ nulla, rispetto ai 14,8 miliardi di dollari che il gruppo si avvia a perdere al 31 dicembre, peggior rosso di bilancio dei suoi 105 anni di storia. Sempre nel 2008, la Ford brucia 21,2 miliardi di dollari ma Mulally non è un car guy. Tre mesi dopo il suo arrivo a Dearborn, ottiene dalle banche un prestito di 23 miliardi di dollari che conta di restituire per intero entro il 2011. Annusa l’aria di crisi prima degli altri e questo gli permette di mettersi in casa i soldi prima che la finanza chiuda i rubinetti. Nel gruppo trova una giungla, sette marchi e 95 modelli, si libera sia per fare cassa che per fare ordine di Aston Martin (per 925 milioni di dollari), di Jaguar e Land Rover (per 2,3 miliardi di dollari) e di Volvo (1,8 miliardi di dollari). Già che c’è, ipoteca anche il celebre marchio dell’ovale blu, ma è sempre meglio che portare i libri in tribunale, come saranno costrette a fare le rivali di Detroit. E adesso che la Ford guadagna – 4,7 miliardi di dollari solo in Nordamerica e solo nel primo semestre 2010 – e adesso che è il più celebrato manager dell’auto a livello mondiale per il miracolo fatto senza gli aiuti dell’amministrazione Obama, Mulally fa anche lo spiritoso in un’intervista a Le Monde rilasciata al Salone di Parigi: “Un Boeing 777 (di cui è stato responsabile dello sviluppo) contiene più di 4 milioni di pezzi, mentre una vettura solo 10.000. E in più deve volare!”.

Facile, no? La cosa è diventata apparentemente meno facile per Sergio Marchionne, l’amministratore delegato della Fiat arrivato a Torino nel giugno del 2004 senza che avesse mai avuto a che fare con una biella. Marchionne si può considerare il prototipo di questa generazione di outsider, usi a trattare più disinvoltamente con i banchieri che con gli ingegneri. Tanto più dopo aver salvato la Fiat e ora la Chrysler. La foto che ritrae Marchionne e Mulally in America nel giugno scorso, abbracciati dopo essersi scambiati parole di miele, si può considerare una sorta di pietra tombale per i car guy.

A differenza di Akerson e di Mulally, del manager italiano formatosi in Canada ormai si sa tutto o quasi. Come il capo della Ford e come probabilmente dovrà fare il nuovo boss di Gm, Marchionne al volante ha dovuto operare innanzitutto un cambiamento di cultura, con una mano perenne sui bilanci da una parte e con l’altra a studiare i nuovi prodotti. La prevalente esperienza finanziaria del 58enne di Chieti è stata però la sua vera marcia in più. Mettendo da parte per un attimo vendite e obiettivi, l’ultimo successo di Marchionne non è stato un’automobile ma il progetto di spin off del gruppo. Con il quale, ancora prima di vararlo, ha tenuto in piedi il titolo in borsa e attraverso il quale sta preparando Fiat Industrial, la vera polpa delle due Fiat, per farsi notare in Piazza Affari il prossimo 3 gennaio 2011. Vedi i rumors su un interessamento Daimler a comprare.

Niente belle e pistoni nemmeno per Philippe Varin, alla guida di Psa (Peugeot-Citroen) dalla primavera del 2009. Ha l’età di Marchionne, 58 anni, parigino, e fino alla chiamata della famiglia Peugeot si è occupato di materiali che hanno relativamente a che fare con l’automobile. Nel 1978 entra in Pechiney, colosso francese dell’alluminio, e quando nel 2003 la società viene assorbita da altri più grandi, diventa amministratore delegato del gruppo anglo-olandese dell’acciaio Corus. Nel 2007, Corus viene acquisita dall’indiana Tata e Ratan Tata, il numero uno del gruppo che ha anche una divisione auto, gli chiede di restare per completare  l’integrazione.

In Psa si ritrova a gestire quella che, nell’astruso linguaggio politico italiano, potremmo chiamare la convergenza parallela di Peugeot e Citroen. Sale in macchina nel pieno della crisi globale, il governo Sarkozy gli affida 3 miliardi di euro in prestiti agevolati che dimostra di sapere usare bene, chiudendo il primo semestre del 2010 con un utile clamoroso di 680 milioni di euro. Al Salone di Parigi ha detto di voler allargare l’alleanza con la Bmw sull’uso di nuovi materiali come la fibra di carbonio, sia per l’alto di gamma che per le utilitarie. Ma più interessante è quello che riuscirà – o non riuscirà – a fare sul piano della concentrazione fra gruppi, cioè ben oltre le intese industriali di cui la maison francese è maestra.

La famiglia Peugeot detiene il potere assoluto ed è restia a scambi azionari. Però siccome “tutti si parlano con tutti”,  in tempi nebulosi soprattutto per i costruttori con prevalente base europea per vendite e produzione, quanto può valere avere in casa un outsider esperto di fusioni rispetto al più brillante dei car guy?

(Quanto avete letto è stato pubblicato anche su carta, Data Book-InterAutonews, ottobre 2010)

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