A Mirafiori c’è chi torna a desiderare, per dirla con le parole del Censis di De Rita. Non sogni: ma salari adeguati, rispetto dei diritti e del contratto. Vista dalla fabbrica simbolo della Fiat, l’Italia è molto meno «appiattita» di quello che è. Centinaia di operai hanno deciso di scioperare perché desiderano «con vigore» (sempre per rovesciare l’istantanea del Censis) trattatative vere e investimenti veri. E’ anche un desiderio che ignora il calendario del 14 dicembre cui tutto sembra essere appeso, in attesa di vedere se il governo Berlusconi avrà o meno la fiducia a Montecitorio.
A Mirafiori come a Pomigliano, la Fiat desidera altro: trattare solo con chi ci sta e investire solo dove nessuno alzerà la mano nemmeno per andare in bagno (per altro difficile, con il dimezzamento delle pause). Insomma, fuori dalle fabbriche la Fiom, dentro un sindacato sconfitto che accetti sottrazioni pesanti in busta paga e nei diritti, come accade negli impianti della Chrysler. Perché non si può negare tutto al sindacato americano e poi concedere qualcosa in Italia. E infatti l’Ig Metall tedesco, che prima di qualsiasi newco aveva intuito dove sarebbe andato a parare Sergio Marchionne, si è messo di traverso nell’acquisizione della Opel da parte del Lingotto. E’ lo stesso sindacato che si appresta a chiedere aumenti del 6 per cento al gruppo Volkswagen, dopo l’annuncio da parte dell’azienda di investimenti per 51,6 miliardi di euro nei prossimi cinque anni, l’assunzione nel medio periodo di 50.000 persone e previsioni da prossimo numero uno mondiale delle quattro ruote.
La Fiat di Marchionne gira in altro modo. Gli operai di Mirafiori venerdì torneranno in cassa integrazione. Ci sono stati per settimane, nel 2010 come nel 2009. Negli stabilimenti italiani del gruppo non si faranno utili, come dice l’amministratore delegato in televisione, ma nemmeno si producono macchine.
La rivista specializzata Interautonews ha calcolato che il 55 per cento delle auto del gruppo vendute nel nostro paese nei primi dieci mesi dell’anno sono costruite all’estero. Solo la Punto, fra i dieci modelli più venduti, è prodotta in casa. Nei primi undici mesi del 2010, in Italia la Fiat ha perso il 17,17 per cento, la Lancia il 14,19 e l’Alfa Romeo si è limitata a un 7,62, grazie all’ottima accoglienza per la nuova Giulietta. Con o senza incentivi, la Volkswagen ha guadagnato l’8,87. Se si guarda alle prime dieci auto più vendute, Punto, Panda e 500 (rispettivamente prima, seconda e quarta) hanno perso fra l’11 e il 20 per cento, contro un minimo 0,80 della Ford Fiesta e addirittura il +0,72 della Opel Corsa, il +21 della Citroen C3 e il + 87 della Volkswagen Polo.
La musica è la stessa in Europa: nei primi dieci mesi, il gruppo Fiat è andato giù del 16,35 per cento. Tra i grandi costruttori generalisti solo la Ford le è stata quasi al fianco con un -12 e solo la Toyota ha fatto peggio con -16,52, ma in seguito a una campagna di richiami per vari difetti alle sue auto senza precedenti.
A Mirafiori il desiderio di chi ci lavora è forte per l’annunciato investimento di un miliardo di euro (il quaranta per cento ce lo mette l’amministrazione Obama via Chrysler), per produrre modelli Alfa Romeo e Jeep da esportare anche fuori dall’Europa. Ma chi ci lavora vuole garanzie sul rispetto del contratto, vuole capire per esempio se la produzione della piccola Alfa Romeo Mito resterà oppure no dentro questa joint venture, o quali siano i numeri veri di uno sviluppo che parla di raddoppio della produzione in Italia entro il 2014.
Se a Mirafiori la Fiat si alza bruscamente dal tavolo dicendo che «non ci sono le condizioni» per trattare, il baratto non può essere la condizione. A meno che Marchionne pensi che gli operai degli stabilimenti italiani siano come i bambini che De Rita vede nel nostro paese. Quelli «obbligati a godere di giocattoli mai chiesti».

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