La pochezza della politica italiana si è vista anche nella audizione di Sergio Marchionne a Montecitorio. Per oltre due ore, l’amministratore delegato della Fiat ha parlato del suo progetto Fabbrica Italia, ha ricevuto dieci domande da altrettanti deputati e ha dato alcune risposte.  Al quesito principe – il cuore della Fiat resterà in Italia? – Marchionne ha risposto sì ma a certe condizioni, legate soltanto alla governabilità delle fabbriche.  Una risposta molto parziale, come se un piano industriale non dipendesse anche o soprattutto dall’andamento dei mercati, dalla competizione, dalle condizioni economiche e finanziarie internazionali in cui opera un gruppo come Fiat-Chrysler.

Il problema è che i deputati l’hanno chiusa lì. Solo alcuni hanno osato: quale è la sua strategia asiatica? (Lulli, Pd). Non è ottimista la sua stima produttiva per Mirafiori? (Gava,Pdl). Quale è il futuro di ricerca e sviluppo Fiat a Torino? (Allasia, Lega Nord). Perché lei ha rinviato i nuovi modelli e la concorrenza no? (Cambursano, Italia dei Valori).  Domande alle quali Marchionne, nella sua brevissima replica, non ha risposto. O risposto parzialmente. Li ha ignorati. Una cosa impensabile se l’audizione fosse stata fatta al Congresso degli Stati Uniti, come è capitato ai malcapitati manager  di Gm e Chrysler alla fine del 2008 nel pieno della grande crisi di Detroit. Ma siamo a Roma. E a un deputato della Lega che viene dal mondo dei concessionari, Marchionne gli ha potuto dire senza problemi: “Io sono rimasto un metalmeccanico, lei si è evoluto”. Provate a immaginare la scena: sarebbe mai potuto succedere a Washington con un deputato del Michigan?

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