La Toyota ha fatto sapere che ci vorranno almeno sei mesi, fino a novembre prossimo, perché la sua produzione in casa e all’estero torni alla normalità, dopo il terremoto e lo tsunami che l’11 marzo scorso hanno squassato l’area nordorientale del Giappone. E mandato in tilt l’intero paese con l’emergenza nucleare a Fukushima di cui non si vede ancora la fine. La Toyota è il primo costruttore ad ammettere pubblicamente che i danni del disastro ambientale sono stati maggiori di quanto tutti gli altri produttori (non solo giapponesi) abbiano finora ammesso per l’industria delle quattro ruote nel mondo. Il 21 marzo scorso l’avevo chiamato effetto farfalla., perché questo battito d’ali aveva spezzato in più parti la catena mondiale di fornitori di componentistica giapponese  non più prodotta. Toyota dà oggi una lezione di trasparenza, dopo averne data una di grande opacità su un difetto al pedale dell’acceleratore che le è costata, oltre a 10 milioni di veicoli richiamati, una sanzione da parte dell’ente federale statunitense e una crepa profonda nella sua immagine di costruttore leader nella qualità totale.  L’ammissione del colosso di Nagoya sugli effetti di lunga durata del terremoto seguono le parole preoccupate di Sergio Marchionne e quasi nulla più. Dan Akerson, numero uno di General Motors, si è limitato a dire al recente Salone di Shangai  che è stato un “miracolo” non ci sia stato un impatto più grande.  Forse ha parlato troppo presto, nel silenzio di tutti gli altri Ceo. Ma tacere non è la migliore pubblicità per continuare a vendere auto come se nulla fosse accaduto.

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